IL MALESSERE SPIRITUALE DEL MONDO ANTICO
È sempre
accaduto che l'uomo si sia sentito solo, sperduto, bisognoso di conforto. Ed
è sempre accaduto che per sfuggire a questa sensazione di vacuità
e di abbandono, l'uomo abbia cercato rifugio nella religione. Tutte le
religioni, con le loro misteriose pratiche propiziatorie e con i loro suggestivi
riti simbolici, hanno avuto, tra le altre funzioni, quella di rassicurare e
consolare i fedeli. Di questo genere di conforto si sentiva grande bisogno agli
inizi dell'era cristiana.
Nel mondo greco e romano importanti correnti di
pensiero (come quella di Epicuro e Lucrezio) avevano indicato e continuavano a
indicare nella filosofia un antidoto efficace all'angoscia della solitudine e
alla paura di vivere: la conoscenza della vera natura delle cose e un po' di
buon senso avrebbero liberato l'uomo dai terrori superstiziosi che erano
generati dalla sua stessa immaginazione, e avrebbero reso superflui gli
altrettanto immaginari conforti della religione.
Ma il rimedio non era di
facile applicazione. La filosofia è un'attitudine che richiede di essere
coltivata attraverso buoni studi, ed era prerogativa di pochi; d'altra parte il
buon senso è sempre stato molto meno diffuso di quel che occorrerebbe.
Per di più, non era solo tra gli incolti che allignava la superstizione:
molti letterati erano quanto meno dubbiosi circa la capacità del pensiero
razionale di trovare una spiegazione convincente del mondo e soprattutto circa
la sua capacità di dare un senso alla vita.
Ma se la ragione era
insufficiente ad affrancare l'uomo dall'angoscia, chi avrebbe potuto aiutarlo?
La religione ufficiale in Grecia e a Roma era volta principalmente alla
celebrazione dei valori della comunità cittadina e dello Stato: i suoi
Dei, un tempo protagonisti di miti affascinanti, erano ormai immagini appannate
dall'uso, buone a mala pena a far da comparse nelle cerimonie pubbliche.
Più adatti sembravano gli antichi culti misterici, che da sempre avevano
costituito la faccia segreta della religiosità greca, quella rivolta al
destino personale ed all'esperienza interiore dell'uomo, che ora veniva
prepotentemente alla ribalta.
In effetti negli ultimi secoli prima di
Cristo i misteri orfici ed eleusini si erano diffusi in tutto l'Impero romano,
un po' come alternativa e un po' come integrazione della religione di Stato. Ma
ai vecchi misteri greci se ne erano aggiunti altri, che provenivano dalle
province medio-orientali dell'Impero romano, o da regioni, come la Persia, che,
pur esterne all'Impero, fin dal tempo di Alessandro Magno erano state, almeno in
una certa misura, ellenizzate ed erano entrate nel grande circuito culturale del
Mediterraneo. Dall'Egitto venivano i misteri di Osiride, re degli Inferi, ucciso
dal malvagio fratello Seth e riportato in vita dalla sposa-sorella Iside. Quelli
di Cibele, Dea della terra, e del suo giovane amante Attis, legati, al solito, a
un mito di morte e di resurrezione, venivano dall'Asia Minore. Dalla Persia
venivano invece i misteri di Mitra, una divinità solare impegnata nella
lotta cosmica tra Bene e Male, che, con la fine del mondo e la vittoria sul
Male, prometteva ai suoi iniziati la resurrezione dei corpi e
l'immortalità.
Il tema della morte e della resurrezione, la speranza
nella salvezza personale o collettiva ad opera del Dio a cui ci si votava,
l'immagine della perenne lotta tra il Bene (associato alla luce e al Sole) e il
Male (associato alle tenebre), l'attesa della fine del mondo con l'inevitabile
trionfo del Bene, erano esattamente il genere di fantasie con cui la gente amava
cimentarsi. E naturalmente, oltre che nelle sette misteriche e nei culti arcani,
i suggestivi prodotti della fertile immaginazione religiosa dell'Oriente
filtravano in Occidente con l'autorevole avallo delle grandi religioni
tradizionali, il Mazdeismo in Persia (la religione di Zarathustra) o l'Ebraismo
in Palestina.
La stessa autorità imperiale, che era ovviamente
interessata a difendere la religione di Stato, tollerò e in una certa
misura favorì la diffusione dei nuovi culti. Gli Imperatori e i loro
funzionari, infatti, condividevano i gusti religiosi del loro tempo e di solito
erano iniziati a questa o a quella setta; in più nutrivano la speranza di
ricavare qualche vantaggio politico (in termini di più larghi consensi e
di maggiore coesione della compagine statale) dalla protezione accordata a culti
dotati di forte richiamo popolare. C'è da dubitare che un simile calcolo
politico fosse giusto. Edward Gibbon, un grande storico inglese del Settecento,
nella sua Storia della decadenza e caduta dell'Impero romano ha attribuito un
ruolo importante nel processo di disgregazione dell'impero romano proprio alla
diffusione di una cultura religiosa di stampo orientale, il cui prodotto
più fortunato è stato il Cristianesimo.
Eliogabalo o
Elagabalo, imperatore di Roma tra il 219 e il 222 d.C., è diventato un
po' il simbolo dell'influenza crescente delle religioni orientali nel mondo
romano. Il suo vero nome era Sesto Vario Avito Sassiano. Imparentato alla
lontana con la dinastia imperiale dei Severi, era stato allevato a corte fino
all'età di tredici anni, quando, a seguito di un colpo di stato, fu
allontanato da Roma e confinato ad Emesa, in Siria, sua città natale. Qui
esisteva il culto di una divinità solare, El Gabal, a cui la sua famiglia
era tradizionalmente legata e di cui il giovane divenne sacerdote, assumendo
anche il nome del Dio. Un nuovo colpo di stato militare lo riportò
improvvisamente a Roma: nonostante fosse ancora un ragazzo, era stato scelto
come nuovo imperatore dall'esercito insorto. Il suo potere non durò a
lungo: in capo a tre anni, appena diciottenne, fu eliminato dall'ennesima
rivolta di militari. A Roma Eliogabalo aveva cercato di imporre il culto del
Sole, aveva introdotto rituali e costumi orientali, aveva promosso ad alte
cariche elementi provenienti dalla Siria. Gibbon sintetizza così
l'impressione suscitata da Eliogabalo al suo arrivo a Roma:
... Era
vestito del suo manto sacerdotale di seta ed oro secondo l'ampia, abbondante
foggia dei Medi e dei Fenici; il suo capo era coperto da un'alta tiara, le sue
numerose collane e i suoi braccialetti erano ornati di gemme di inestimabile
valore. Aveva le ciglie tinte di nero e le guance dipinte di belletto rosso e
bianco. Gli austeri senatori confessarono con un sospiro che Roma, dopo aver
fatto a lungo esperienza della dura tirannide dei propri concittadini, doveva
infine umiliarsi dinanzi al lusso effeminato del dispotismo
orientale...
MAZDEISMO E MITRAISMO
Zarathustra (o Zoroastro, come lo chiamavano
i greci) è un profeta e riformatore religioso che operò in Persia
in un'epoca imprecisata tra il 1000 e il 600 a.C. Notizie più o meno
storicamente attendibili possono essere ricavate dalla narrazione dell'Avesta
(che probabilmente significa «testo sacro»), il complesso di libri
sacri che contengono la sistemazione delle dottrine predicate da Zoroastro. La
religione fondata da Zoroastro, il mazdeismo si basa su antiche credenze
indo-iraniane che ammettevano l'esistenza di molte divinità e la presenza
di demoni. Erodoto parla dei sacrifici offerti agli elementi naturali (Sole,
Luna, Terra, Acqua, Fuoco, Vento) e del culto praticato sulla cima delle
montagne. Oggi il mazdeismo ha ancora seguaci in Iran e soprattutto in India,
dove, nell'ottavo secolo d.C., gruppi di seguaci di Zarathustra sono emigrati
per sfuggire alla minacciosa avanzata dell'Islam.
Il mazdeismo prende il
nome da Mazda o Ohrmazd, il Dio supremo, lo Spirito del Bene, Creatore
dell'universo e Signore del Cielo. A Mazda si contrappone Arimane, lo Spirito
Malvagio, che riesce a penetrare nel mondo che Mazda ha creato. Il male si
mescola in questo modo al bene, e l'uomo è posto di fronte ad una
alternativa radicale: nella lotta tra i due, ciascuno è chiamato a
schierarsi, a fare la sua scelta.
Ad aiutare gli uomini, Mazda invia una
serie di profeti, l'ultimo dei quali preannuncerà lo scontro finale,
destinato a concludersi con la vittoria del Bene e con l'annientamento di
Arimane e dei suoi seguaci. Un fiume di metallo incandescente investirà
allora il mondo per purificarlo, e Mazda resterà solo a regnare sui
beati. In questo modo, il dualismo Bene-Male, caratteristico del mazdeismo, si
risolve alla fine in un monismo assoluto.
A parte il Cristianesimo,
destinato a trionfare su tutti i concorrenti, il culto orientale che ottenne il
maggiore successo nel mondo romano fu il Mitraismo, una setta mistica legata al
mazdeismo. Mitra era un Dio della luce (generalmente identificato con il Sole),
alleato del sommo Dio Mazda nella sua lotta contro Arimane: all'inizio di questa
lotta aveva scannato il toro primordiale (simbolo della fecondità) per
sottrarlo ad Arimane, e dal sangue del toro era sgorgata la vita. Ma al termine
della lotta questo stesso sangue avrebbe garantito la resurrezione dei morti e
il sorgere di un mondo trasfigurato.
Già nel primo secolo d.C. il
Mitraismo annoverò tra i suoi iniziati personaggi di rilievo, tra cui
l'imperatore Nerone, ma fu solo nel secolo successivo che incominciò la
sua diffusione di massa. Tra il III e IV secolo era probabilmente la religione
più forte dell'Impero. Era una setta maschile e aveva assunto quasi
subito una connotazione prevalentemente militare, che ne accentuava l'importanza
agli occhi del potere imperiale. Anche l'imperatore Costantino prima di optare
per il Cristianesimo aveva professato il Mitraismo, come prima di lui aveva
fatto Diocleziano, e come, dopo di lui, avrebbe fatto Giuliano, autore di uno
sfortunato tentativo di restaurazione del Paganesimo, detto per questo dai
Cristiani «l'Apostata» (dal greco apòstasis =
«allontanamento»).
L'EBRAISMO E IL CRISTIANESIMO
Il singolare patto di alleanza stretto con
il suo Dio non aveva fruttato a Israele né potenza, né
libertà.
Le sofferenze del popolo ebraico si erano anzi moltiplicate
e il dominio degli stranieri sembrava non dovesse avere più fine. Ma la
speranza era la sostanza della religione di Israele, e il prolungarsi della
schiavitù non aveva logorato nel popolo ebraico la fiducia nella
liberazione; aveva semmai acuito l'attesa di questo evento, e soprattutto ne
aveva arricchito il significato.
Nelle più antiche profezie la
redenzione del popolo di Dio era stata concepita semplicemente come trionfo di
Israele sui suoi nemici ad opera di un misterioso re (o Messia, che in ebraico
vuol dire «unto del Signore», titolo ufficiale dei re) della casa di
David. Più tardi, invece, e specialmente a partire dal III secolo a.C.,
quell'evento straordinario era diventato qualcosa di ben più grosso:
l'instaurazione del Regno di Dio sulla Terra.
Anche la figura del Messia
era cresciuta di livello, venendo ad assumere le caratteristiche di una creatura
celeste: il «Figlio dell'Uomo», com'era chiamato nel libro di Daniele,
sarebbe comparso «tra le nuvole del Cielo», e a lui Dio avrebbe
conferito «la potestà, l'onore e il regno» (Daniele 7,14).
L'avvento del Figlio dell'Uomo avrebbe segnato la fine del mondo, la sconfitta
del Male, la resurrezione dei morti, il giudizio universale:
... E
quei molti che riposano nella polvere della Terra si risveglieranno, gli uni per
la vita eterna, gli altri per l'eterna vergogna. (Daniele
12,2)...
L'evoluzione dell'escatologia biblica (ossia della dottrina
biblica degli eventi finali del mondo, dal greco éskata = «le cose
ultime») dalla predizione della liberazione della Nazione ebraica a quella
della rigenerazione del mondo attraverso la definitiva sconfitta del Male, era
essenzialmente dovuta all'influenza del mazdeismo, a cui apparteneva l'idea
della resurrezione dei morti e del giudizio universale. All'influenza del
mazdeismo era anche legata l'evoluzione della figura di Satana da cortigiano e
consigliere di Dio (quale appariva ancora nel libro di Giobbe) a suo
irriducibile avversario, e più in generale la rappresentazione della
vicenda cosmica come contrasto tra la Luce (Bene-Dio) e le Tenebre
(Male-Satana).
Il quadro teorico dell'Ebraismo doveva trasmettersi quasi
immutato al Cristianesimo. Pressoché identiche rimanevano:
1)
l'immagine di un Dio personale (con il quale cioè si poteva avere un
contatto vivo, intimo, caldo, dialogante), creatore del mondo e signore della
storia (nel senso che, dopo averlo creato, dirigeva e regolava il mondo secondo
la sua imperscrutabile saggezza);
2) la nozione di peccato (consapevole e
responsabile atto di ribellione alla volontà di Dio, e quindi rottura
dell'antico patto di alleanza) e quella della sua redenzione (dal latino
redimere, composto di red- = «ri» e di emere = «comprare», e
cioè ricomprare, riscattare, liberare dietro compenso) che comporta una
espiazione (dal latino expiare, composto dalla particella rafforzativa ex- e da
piare = «rendere puro»: sacrificio propiziatorio e purificatore), e la
riconciliazione con Dio;
3) l'attesa escatologica dell'avvento del Regno di
Dio e la visione apocalittica di una catastrofe cosmica, momento culminante
della lotta tra Bene e Male.
Il Cristianesimo delle origini non era che una
delle tante sette dell'Ebraismo, difficilmente distinguibile dalle altre. Salvo
che per un punto: per i Cristiani il Messia era già venuto, il Figlio
dell'Uomo era Gesù Cristo (Cristo è il termine greco che equivale
appunto all'ebraico Messia = «Unto del Signore»), e l'avvento del
Regno di Dio imminente.
Proprio questa era la buona notizia (in greco:
euanghélion, composto di eùs = «buono» e àngelos
= «notizia», da cui Vangelo, evangelizzare, ecc.), che i seguaci di
Gesù avevano il compito di diffondere: «il Regno dei Cieli è
vicino». I primi Cristiani lo ritenevano tanto prossimo da adottare una
pratica di vita eroica, insostenibile sulla lunga durata. A un certo punto
apparve evidente che la piena instaurazione del Regno di Dio avrebbe richiesto
tempi indefinibili. Ma la venuta e il sacrificio di Gesù avevano segnato
pur sempre una svolta nella storia dell'umanità, in quanto espiazione dei
peccati, riconciliazione con Dio, rigenerazione del mondo.
La venuta di
Gesù era insomma la vittoria decisiva del Bene sul Male: decisiva, anche
se per il momento solo potenziale, tale, cioè, da dover attendere una
seconda venuta (parusia) del Cristo per dare i suoi frutti. Così, per i
Cristiani, quella che era stata la speranza d'Israele era ormai
adempiuta.
Non però nella forma, ancora attesa dalla maggioranza
degli Ebrei, di una rinascita nazionale. La «buona novella» in un
certo senso non riguardava affatto gli Ebrei, o per lo meno (come gradualmente
ci si rese conto) non li riguardava più di altri. S. Paolo, nonostante le
forti resistenze di alcuni confratelli, riuscì alla lunga a imporre nelle
comunità cristiane il principio che l'evangelizzazione non dovesse essere
rivolta esclusivamente (e neppure prevalentemente) agli Ebrei. A questo punto,
però, il Cristianesimo si poneva definitivamente fuori
dell'Ebraismo.
PECCATO
La parola «peccato» viene dal
latino peccatum e questo rinvia a un probabile peccus = «difettoso nel
piede» (analogo a mancus = «difettoso nella mano»,
«monco»). Insomma la nozione di peccato si connette anticamente
all'idea di una grave difficoltà a camminare e a mantenersi nel giusto
sentiero. Un'associazione dello stesso genere è all'origine di
«scellerato» (dal latino scelus = «uomo malvagio», che
è legato a un'antica radice skhel = «compiere passi falsi»,
«inciampare») e di «fallo» (dal latino fallere =
«ingannare», da una radice indoeuropea phel = «ingannare»,
parallela a pel = «cadere»). Anche nel testo ebraico della Bibbia il
peccato è spesso designato con termini che indicano errore, sviamento,
ecc.
ERETICI E CONCORRENTI DEL CRISTIANESIMO
Bisogno di Dio, disgusto per la materia e il
corpo, fame di purezza e di santità, attesa di rinnovamento personale,
collettivo o cosmico: erano gli ingredienti di una mentalità sempre
più diffusa nel mondo romano agli inizi della nostra era, che si
trovavano, variamente combinati, in una quantità di culti, sette, scuole,
cenacoli religiosi e filosofici, e anche, naturalmente, nel più fortunato
di questi movimenti, il Cristianesimo.
I progressi della Chiesa cristiana
primitiva non furono né rapidi, né indolori. Nei suoi primi secoli
di vita, oltre ai molti (e talvolta formidabili) concorrenti esterni, il
Cristianesimo dovette affrontare le continue divisioni che, a causa di un quadro
dottrinale ancora relativamente fluido, si producevano al suo interno. Proprio a
causa di questa relativa fluidità della dottrina cristiana e della forti
affinità culturali esistenti tra tutti i movimenti religiosi del tempo
è spesso difficile stabilire se certi gruppi appartengano (sia pure come
gruppi minoritari o ereticali) alla storia del Cristianesimo o ne siano del
tutto estranei. È il caso della corrente giudeo-cristiana degli Ebioniti
(dall'ebraico ebjonim = «poveri»), che consideravano Gesù un
profeta, ma non un Dio, e praticavano la povertà: fedeli alle tradizioni
ebraiche, questi gruppi si erano opposti in particolare all'opera
evangelizzatrice di S. Paolo, che era rivolta a Ebrei e non-Ebrei
indifferentemente.
Tra il II e il III secolo d.C. ebbero grande diffusione
specialmente in Siria e in Egitto, e anche in ambiente cristiano, le correnti
gnostiche. Più che un'eresia del Cristianesimo lo Gnosticismo fu un
tentativo sincretistico di fondere insieme motivi del pensiero classico, ebraico
e cristiano con elementi delle tradizioni magiche ed esoteriche. Gnosi significa
in greco «conoscenza», ma qui il termine era usato per indicare quella
peculiare forma di conoscenza che è l'illuminazione mistica, che, secondo
la tradizione settaria dei misteri, costituiva un'esperienza privilegiata,
riservata a pochi iniziati.
Lo gnosticismo affermava l'esistenza di due
principi opposti, il Bene (Dio) e il Male (la Materia), entrambi eterni e in
perpetua lotta fra di loro. Tra il mondo superiore della Spirito e quello
inferiore della Materia, gli gnostici ipotizzavano un mondo intermedio,
costituito da eoni, o «emanazioni» della divinità, disposti
secondo una scala decrescente di valori che arrivava sino alla materia. Il
principale tra questi eoni era il Demiurgo (una reminiscenza platonica),
l'artefice divino che aveva creato il mondo: Dio infatti, in quanto essere
puramente spirituale non sarebbe potuto essere l'autore diretto di una
realtà che è anche materiale. Anche Gesù era un eone, che
si era incarnato per liberare lo Spirito dalla Materia. L'anima dell'uomo era
una scintilla caduta dal mondo superiore dello Spirito in quello inferiore, e
rimasta «imprigionata con dolore» nella materia.
La Chiesa
combatté duramente gli gnostici, anche perché costoro, di fronte
all'esperienza suprema della gnosi, tendevano a negare qualsiasi valore sia alla
fede in Cristo, sia alla legge morale. Ma lo gnosticismo esprimeva una cultura
di cui anche il Cristianesimo era permeato, e uno dei più importanti
pensatori della Chiesa, Origene, vissuto all'incirca tra il 185 e il 254, diede
vita a una sorta di «gnosi cristiana», fortemente sospetta di
eresia.
Una tipica forma di sincretismo, pressappoco contemporanea allo
gnosticismo, è la dottrina ermetica enunciata in una serie di scritti di
carattere magico-religioso, alchemico e astrologico, che fino al Seicento sono
stati attribuiti ad un personaggio leggendario, Ermete Trismegisto, e ritenuti
testimonianza di una sapienza antichissima. In realtà questi scritti sono
stati redatti da autori diversi in tempi diversi, non prima, comunque, del II
secolo d.C. Quanto alla figura di Ermete Trismegisto, è il risultato
dell'identificazione del Dio greco Ermete (Mercurio per i Latini), messaggero di
Zeus, con il Dio egiziano Thoth, che era detto «tre volte grande» (in
greco: trismègistos). L'ermetismo combinava idee orfiche, pitagoriche,
platoniche, aristoteliche, stoiche, ecc. con spunti tratti dal giudaismo e dal
mazdeismo. Vi si ritrovano i temi comuni a tutte le correnti religiose del
tempo: la liberazione dell'anima dal mondo materiale, l'assoluta trascendenza di
Dio, l'esperienza mistica del ritorno in Dio, ecc. I testi ermetici, solo in
parte conosciuti nel Medio Evo, furono riscoperti nel Rinascimento nel quadro
del rinnovato interesse per la magia, l'astrologia e l'alchimia.
Non era
affatto un'eresia cristiana, ma un movimento religioso autonomo il Manicheismo,
fondato nel III secolo d.C. da un sacerdote persiano di nome Mani: esso tuttavia
avrebbe fornito le basi teoriche a diverse eresie sorte nei secoli successivi.
Il Manicheismo era un singolare impasto sincretistico di elementi tratti dal
cristianesimo, dallo gnosticismo, dal buddismo e soprattutto dal mazdeismo,
l'antica religione di Zarathustra. Il Manicheismo postulava la coesistenza di
due principi contrapposti, la Luce e le Tenebre, che si affrontano perennemente
sulla scena del mondo. Anche l'uomo ha due nature, una corporea, legata alle
Tenebre, e l'altra spirituale, legata alla Luce. Il dovere dell'uomo è di
aiutare il principio luminoso a prevalere sulle Tenebre praticando l'ascesi,
l'astinenza dalla carne, la rinuncia alle ricchezze, il
celibato.
Perseguitato in Persia ad opera dei seguaci del Mazdeismo, il
Manicheismo ebbe una larga diffusione in Africa, in Asia e nell'Impero romano.
Anche S. Agostino, prima di farsi cristiano, aderì al Manicheismo. In
effetti, pur esprimendo temi affini a quelli del Cristianesimo, il Manicheismo
ne minava i fondamenti: considerava il Dio dei Cristiani un'immagine illusoria
prodotta dalle Tenebre, riteneva la creazione dal nulla un evento impossibile,
giudicava un'assurdità l'incarnazione di Cristo, e così
via.
Oggi la parola «manicheismo» viene usata anche fuori del
campo religioso, e prevalentemente con valore negativo, per indicare qualsiasi
dottrina rigidamente dualistica. Una visione «manichea» del mondo, in
sostanza, è quella che, incapace di cogliere le sfumature, le
ambiguità, i chiaroscuri che esistono in tutte le cose, formula giudizi
sommari in base ad astratte contrapposizioni: o buono o cattivo, o bello o
brutto, ecc.
Tra i dogmi della Chiesa quello della Trinità era forse
il più inquietante: esso infatti appariva in palese contrasto con l'idea
di un Dio unico. Ario, un prete di Alessandria, ordinato sacerdote verso il 310,
si fece interprete delle perplessità che la tesi trinitaria suscitava tra
i fedeli e prese a predicare una dottrina che negava l'uguale natura del Figlio
e del Padre. Gesù, diceva in sostema Ario, era stato generato e quindi
non poteva essere né eterno, né un Dio creatore. Era piuttosto una
creatura, sebbene di natura un po' speciale, né vero Dio, né
semplice uomo. Questa dottrina per la sua semplicità e ragionevolezza, ma
soprattutto per la capacità dei suoi sostenitori di organizzare un vero e
proprio movimento di opinione, ottenne un largo successo a dispetto delle
condanne ecclesiastiche che subito la colpirono. Ne nacquero dei disordini che
minacciarono seriamente l'unità della Chiesa e la tranquillità
dell'Impero. Per porre fine a questa preoccupante situazione intervenne lo
stesso imperatore Costantino, che si era convertito al Cristianesimo anche nella
speranza, presto delusa, di trovare nella nuova religione un elemento di
coesione e di stabilità interna.
Costantino nel 325 convocò i
vescovi in concilio a Nicea ed essi non poterono che confermare la condanna
delle tesi ariane: negare la divinità di Cristo voleva dire infatti
svuotare di significato l'altro grande mistero cristiano, quello
dell'Incarnazione. Dal concilio uscì la formulazione ufficiale della
dottrina della Chiesa, il cosiddetto «simbolo niceno», ossia il Credo,
tuttora vivo nelle fede e nella liturgia cattolica:
Credo in un solo
Dio.
Padre onnipotente, creatore del Cielo e della Terra, di tutte le cose
visibili e invisibili.
E in un solo Signore, Gesù Cristo, Figlio
unigenito di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli. Dio da Dio, lume da
lume, Dio vero da Dio vero. Generato e non fatto, consostanziale al Padre: per
mezzo suo sono state fatte tutte le cose. Che per noi uomini e per la nostra
salvezza discese dai Cieli. E per opera dello Spirito Santo si è
incarnato da Maria Vergine e si è fatto uomo. E per noi fu anche
crocifisso: ha sofferto sotto Ponzio Pilato ed è stato sepolto. E
risuscitò il terzo giorno secondo le Scritture. E salì al Cielo:
siede alla destra del Padre. E di nuovo verrà con gloria a giudicare i
vivi e i morti: il regno suo non avrà fine.
E nello Spirito Santo,
Signore e datore di vita. Che procede dal Padre e dal Figlio. Che è
adorato e glorificato insieme al Padre e al Figlio. Ed ha parlato per bocca dei
Profeti.
E in una sola santa cattolica e apostolica Chiesa.
Confesso
un solo battesimo per la remissione dei peccati. E aspetto la resurrezione dei
morti. E la vita dei tempi a venire. Amen.
Il Concilio di Nicea non
pose fine al dissidio. L'Arianesimo continuò ad avere un largo seguito ed
anzi, a un certo punto, per le pressioni del governo imperiale, sempre
preoccupato di evitare disordini, lo stesso Ario dovette essere riabilitato
dalle autorità ecclesiastiche. Quando poi la Chiesa riuscì ad
espellere definitivamente gli ariani, e a sconfiggere i loro sostenitori nei
quadri dell'amministrazione imperiale, le dottrine di Ario si diffusero presso i
barbari che si erano insediati entro i confini dell'Impero, e qui, al riparo
dalle persecuzioni, sopravvissero ancora per secoli.
SINCRETISMO
Secondo un'antica ipotesi, oggi ritenuta
però alquanto dubbia, il termine «sincretismo» deriverebbe dal
greco syn = «insieme» e Krete = «Creta» e vorrebbe dire alla
lettera «unione (confederazione, lega) alla maniera cretese». È
usato per indicare la fusione in una nuova dottrina (specialmente, ma non
necessariamente religiosa) di elementi appartenenti a dottrine diverse, sul
genere di quelle realizzate nei primi secoli dell'era cristiana dal Manicheismo,
dalle correnti gnostiche, ecc. La parola (come il termine
(«eclettismo» che le è affine) è spesso usata con valore
negativo, che allude al carattere incoerente e contraddittorio che tali misture
dottrinali possono presentare.
ERESIA E ORTODOSSIA
Il termine «eresia» viene dal
greco hàiresis, che aveva in origine il significato generico di scelta,
indirizzo, proposta, ed era applicabile a campi diversi. In età
alessandrina cominciò ad essere usato in senso restrittivo, riferito
cioè a dottrine filosofiche, religiose, politiche, ecc., nel significato
di setta; non però con il valore spregiativo che questa parola ha finito
per assumere, ma piuttosto con quello di cenacolo, corrente, scuola di
pensiero.
Il valore attuale di eresia riferito specificamente all'ambito
dottrinario-religioso ha cominciato a manifestarsi nel Nuovo Testamento (dove
conservava il significato di «setta», ma già con valore
dispregiativo) e si è precisato nel pensiero degli apologisti e dei Padri
della Chiesa. Contemporaneamente il significato di eresia, come dissenso nei
confronti delle dottrine della Chiesa, si è venuto distinguendo da
«scisma» (dal greco schizein = «dividere»,
«separare»), che è un dissenso relativo soltanto alla
disciplina e all'organizzazione della Chiesa.
Pur essendo propriamente
riferibile solo alle dottrine religiose (e in particolare a quelle cristiane) il
termine «eresia» è adoperato estensivamente per indicare
correnti filosofiche, politiche, scientifiche, artistiche o letterarie che si
discostano dalla norma.
In ogni caso, che venga usato in senso proprio o
estensivo, il concetto di eresia non ha mai valore assoluto, ma solo e sempre
relativo e complementare; ha un significato cioè solo in rapporto al
concetto di «ortodossia» (dal greco orthòs =
«diritto» o «giusto», e doxu = «opinione»), ossia
la credenza o dottrina ufficialmente adottata da un gruppo, da un partito, da
una scuola o (nel significato religioso del termine) da una Chiesa.
Eresia
e ortodossia non solo si implicano a vicenda, ma sono spesso intercambiabili,
nel senso che l'eresia è tale solo dal punto di vista dell'ortodossia, la
quale, a sua volta, può essere condannata come eresia da chi,
ufficialmente dichiarato «eretico», ma muovendo dagli stessi principi,
la ritenga in qualche modo corrotta o inquinata e pertanto non più
conforme alla «vera ortodossia». Non è senza significato il
fatto, riferitoci da S. Paolo, che i Giudei considerassero un'eresia il nascente
Cristianesimo. Nonostante le differenze che li separano, eretici e ortodossi
devono avere un certo numero di credenze in comune; non si può altrimenti
parlare di eresia. Ii Manicheismo, ad esempio, non era un'eresia del
Cristianesimo, perché, a dispetto di alcune somiglianze con la religione
cristiana, non ne accettava i principi fondamentali, a cominciare dalla fede in
Cristo.
I NEOPLATONICI
La filosofia neoplatonica è stata
l'ultimo grande prodotto del pensiero greco. Si è sviluppata nel III
secolo d.C., ossia nel periodo di più intensa crisi spirituale del mondo
antico, come sintesi della filosofia platonica (combinata però con
elementi aristotelici, stoici e pitagorici) e della mistica ebraica o più
genericamente orientale. I neo-platonici credevano nell'assoluta trascendenza di
Dio, ma nonostante questo il loro Dio era meno distante dall'uomo di quanto lo
fossero le Idee platoniche o il Dio di Aristotele: dava vita al mondo, si
trasformava in mondo, era il mondo.
Tre erano le tesi fondamentali della
filosofia neoplatonica:
1) Dio è al di là di ogni
comprensione umana. La sua essenza non può essere né pensata con
l'intelletto, né espressa con parole, e può essere colta solo
mediante un'intuizione mistica. Dio è insomma ineffabile («non
può essere enunciato con discorsi») e può essere definito in
qualche modo (ma molto impropriamente) solo dicendo che è l'Uno, ossia
negazione di qualsiasi realtà materiale (che è sempre molteplice e
frammentaria).
2) Tutte le cose derivano da Dio per emanazione. Immaginiamo
che i raggi del Sole invece di limitarsi a illuminare e a riscaldare le cose,
diventino cose, si materializzino: pressappoco lo stesso accade al Dio dei
neoplatonici, che, come il Sole, resta irraggiungibile, e tuttavia costituisce
la sostanza del mondo, perché tutte le cose sono sua emanazione e il
mondo altro non è che Dio. Questa posizione è ciò che si
chiama «panteismo» (dal greco pan = «tutto» e theòs =
«Dio»: «tutto è Dio»).
3) Come la luce diviene
tanto più fioca quanto più ci si allontana dalla sua fonte,
così la realtà diventa sempre meno perfetta via via che si
allontana dall'Uno-Dio. La materia è qualcosa di opaco, di inerte, di
ostile, che resiste all'azione penetrante della luce divina, e contamina l'uomo.
Purificarsi da ogni contaminazione, liberarsi dalla materia è possibile
attraverso l'esercizio costante della virtù, il culto della bellezza,
l'amore per la filosofia. Questo cammino culmina nell'«estasi», uno
stato di completo abbandono, in cui l'uomo torna a confondersi trionfalmente
nell'Uno-Dio da cui proviene.
Fondatore del neoplatonismo è
considerato Ammonio Sacca, che operò ad Alessandria nel III secolo d.C.:
pare che facesse il facchino (mestiere a cui allude il nome Sacca) e che avesse
aderito al Cristianesimo, distaccandosene in un secondo tempo. Non lasciò
nulla di scritto, affidando la sua dottrina alla sola comunicazione orale,
sicché non conosciamo esattamente le sue dottrine; sappiamo però
che esercitò una larga influenza, annoverando tra i suoi allievi alcuni
tra i più importanti pensatori del tempo.
Uno di questi, Plotino,
nato probabilmente a Licopoli, in Egitto, nel 205 d.C., è considerato il
massimo esponente del neoplatonismo. Dopo aver seguito l'insegnamento di Ammonio
Sacca per oltre un decennio, nella speranza di approfondire la conoscenza del
pensiero orientale seguì l'imperatore Gordiano III in una sfortunata
spedizione contro i Persiani. Dopo la sconfitta di Gordiano si trasferì
in Roma dove insegnò per 26 anni. Ritiratosi infine in Campania, presso
un suo allievo, l'arabo Zetho, morì nel 270. Il suo allievo prediletto,
Porfirio, che compilò anche una Vita di Plotino, raccolse gli scritti del
maestro in sei Enneadi (ossia gruppi di nove trattati, dal greco ennéa =
«nove») e li pubblicò agli inizi del IV secolo
d.C.
IL CRISTIANESIMO E L'EREDITÀ CLASSICA
La nuova religione doveva prima o poi fare i
conti con la tradizione filosofica classica, anche se le sue
«verità» non pretendevano di essere dimostrate razionalmente,
ma venivano proclamate in forma di esortazione e di profezia. Quei pensatori che
sarebbero poi stati detti «Padri della Chiesa» ebbero appunto
l'obiettivo di arrivare a questa resa di conti, che doveva consistere da un lato
nella difesa (o «apologia») del Cristianesimo contro tutti i suoi
avversari, ebrei o pagani, e dall'altro nella formulazione teorica delle
credenze del Cristianesimo, ossia nella loro sistemazione in un corpo coerente
di dottrine.
Tra gli apologisti e i Padri della Chiesa si manifestarono
subito due indirizzi opposti: uno che tendeva a presentare il Cristianesimo come
continuatore ed erede della filosofia classica, e l'altro che tendeva ad
esasperare le reciproche divergenze, rivendicando l'assoluta originalità
del Cristianesimo, e teorizzando la priorità della fede sulla ragione,
della religione sulla scienza, della rivelazione sulla ricerca.
A questo
secondo indirizzo apparteneva il maggiore degli apologisti del Cristianesimo,
Tertulliano, un pagano convertito in età matura, intorno al 195 d.C., e
autore di innumerevoli opere polemiche dirette prima contro i pagani e gli
eretici e poi, quando nella sua irrequieta esistenza finì anche lui per
aderire ad un gruppo ereticale, contro la Chiesa ufficiale.
La condanna
della filosofia e della ricerca era da parte di Tertulliano radicale. Cristo
è la verità, e una volta trovato Cristo ogni altra ricerca
è inutile o pericolosa: la filosofia era la matrice di ogni eresia, di
ogni deviazione dalla via indicata da Cristo. Era del resto impossibile tentare
di rendere ragionevoli le verità del Cristianesimo, la cui forza stava
proprio nel loro carattere paradossale:
... Il Figlio di Dio è
stato messo in croce: parrebbe indegno di un Dio, ma proprio per questo non lo
è. Il Figlio di Dio è morto: è inconcepibile, e proprio per
questo dobbiamo crederci. Sepolto, è resuscitato: è impossibile,
dunque è vero...
Insomma per Tertulliano la forza della fede
era tanto maggiore quanto più i suoi contenuti ripugnavano alla ragione.
Per dirla con una formula che non si trova in Tertulliano, ma che riassume
efficacemente il suo pensiero: credo quia absurdum, «credo perché
è assurdo».
PATRISTICA
Il termine «Patristica» è
stato coniato dai teologi protestanti del XVII secolo ed è entrato
nell'uso comune per indicare l'opera dei cosiddetti «Padri della
Chiesa». Padri della Chiesa sono quegli scrittori ecclesiastici che
rispondono ai requisiti dell'antichità (sono vissuti non oltre i primi
sette o otto secoli dell'era cristiana), dell'ortodossia, della santità
di vita (che conferma l'eccellenza del loro insegnamento). Alcuni di loro sono
stati proclamati esplicitamente (da un papa o da un concilio) «Dottori
della Chiesa».
AGOSTINO
Nato a Tagaste, nell'Africa Settentrionale,
nel 354 d.C., Aurelio Agostino studiò e più tardi insegnò
retorica a Cartagine dove, come poi scrisse nelle Confessioni (che non sono
propriamente un'autobiografia, ma piuttosto, come suggerisce anche il titolo,
una sorta di lunga conversazione con Dio, nel corso della quale Agostino
ripercorre le esperienze più importanti della sua vita), sentiva stridere
tutt'intorno a sé «l'olio bollente dei colpevoli
amori»:
... M'era dolce amare ed essere amato, e più
quando potevo godere del corpo dell'amante. [...] O Dio, misericordia mia, di
quanto fiele Tu, così buono, hai cosparso quelle dolcezze, perché,
sì, ho amato e sono stato riamato e sono arrivato in segreto al laccio
del godimento, e mi sono stretto beato in catene di spine, per sentirmi battere
con le ferree verghe roventi della gelosia e dei sospetti, della rabbia e delle
risse.
Mi rapivano gli spettacoli teatrali, pieni d'immagini delle mie
stesse miserie e di nuovi tizzoni per il mio fuoco. Com'è che l'uomo vuol
provare dolore quando assiste alla rappresentazione di vicende tragiche e
luttuose che però mai e poi mai vorrebbe subire? [...] Amavo di
rattristarmi e cercavo oggetti che mi rattristassero giacché nelle altrui
sventure inventate da saltimbanchi mi piaceva di più e con maggior forza
mi attirava quel commediante che con la sua recitazione mi sapeva meglio
strappare le lacrime. [...]
Tale era la mia vita. Ma, mio Dio, era vita
quella?...
A Cartagine Agostino si legò a una giovane donna
dalla quale ebbe un figlio, Adeodato. Nel tentativo di guadagnare un po' di
più si trasferì a Roma, nonostante le energiche rimostranze di sua
madre Monica, che non voleva separarsi da lui. A Roma le condizioni economiche
di Agostino non migliorarono affatto, anche per la pessima abitudine degli
allievi di non pagargli le lezioni. Nel 384 vinse il concorso per la cattedra di
retorica del municipio di Milano, un incarico finalmente ben retribuito. Si fece
allora raggiungere dalla madre, dalla convivente, dal figlio, e dai discepoli
che si era fatto a Cartagine.
Sua madre, Monica, era cristiana e soffriva
del fatto che il figlio non avesse voluto battezzarsi. Agostino, infatti, si era
avvicinato al Manicheismo, di cui apprezzava il materialismo (l'idea di un puro
spirito gli sembrava inconcepibile e considerava anche l'anima come qualcosa di
materiale) e soprattutto l'attenzione per il problema della sconcertante
presenza del male nel mondo. Ma il Manicheismo e soprattutto i verbosi manichei
che ebbe a frequentare finirono per stancarlo. A Milano fu invece impressionato
dalle prediche di Ambrogio (330-397), vescovo di quella città, poi
proclamato santo e dottore della Chiesa: attraverso il suo insegnamento e quello
dei neoplatonici, che riprese a studiare, arrivò ad accettare la nozione
di spirito e a convincersi che la presenza del male nel mondo non implicava
affatto l'ipotesi manichea di un Dio del Male e delle Tenebre contrapposto a
quello del Bene e della Luce.
A questo punto non c'era più nulla,
sul terreno della dottrina, che gli impedisse davvero di aderire al
Cristianesimo. Ma Agostino esitava ancora, spaventato dalle rinunce che il
tentativo di praticare l'ideale della perfezione cristiana gli avrebbe
imposto:
... Ciò che mi tratteneva erano inezie d'inezie,
vanità di vanità, le mie vecchie amiche, le quali mi tiravano per
il lembo della mia veste di carne e mi sussurravano all'orecchio: - Dunque, ci
mandi via? d'ora in avanti non staremo più con te? mai
più?...
Un giorno, travagliato dai dubbi, depresso, piangente,
irrequieto, Agostino si trovava nell'orto dietro casa con l'amico Alipio, che,
immobile al suo fianco, aspettava di vedere come sarebbe andata a finire tutta
quella agitazione.
... Quand'ecco, da una casa vicina udii una voce,
non so se di bimbo o di bimba, che ripeteva cantilenando: - Prendi e leggi,
prendi e leggi... - E subito, cambiando viso, mi sforzai di ricordare se si
trattava di una cantilena che i bambini fossero soliti ripetere in qualche loro
gioco; non mi sembrava però di averla mai sentita prima. Allora,
trattenendo le lacrime, mi alzai e mi venne in mente di prendere quella voce per
un ordine divino di aprire il libro e di leggere il primo capitolo che mi fosse
capitato. [...] Tornai di corsa nel luogo dove Alipio stava ancora seduto e dove
avevo posato il libro dell'Apostolo [l'Epistola ai Romani di S. Paolo] quando mi
ero alzato per venir via. Ed ecco, lo afferrai, lo aprii, e lessi in silenzio il
primo capitolo che mi venne sott'occhio: «Non nelle crapule e nelle
ubbriacature, non nelle alcove e nelle disonestà, non nelle liti e nelle
gelosie: ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non curatevi della
carne e delle sue concupiscenze»...
Agostino non ebbe
difficoltà a interpretare il senso dell'oracolo e prese su due piedi la
decisione di convertirsi, sollecitamente seguito dall'amico
Alipio.
... Rientriamo tutt'e due in casa e raccontiamo l'accaduto a
mia madre: la buona donna se ne rallegra. Le raccontiamo per filo e per segno
come è andata la cosa: ella ne esulta e trionfa dandone benedizione a Te.
[...] Mi avevi infatti convertito a Te fino al punto che io non volevo
più né moglie né altra speranza
mondana...
Così, dopo tredici anni di vita in comune, Agostino
abbandonò la sua compagna, per ritirarsi con la madre (anch'essa fatta
santa dalla Chiesa) e alcuni discepoli in una villa della Brianza. La notte del
Sabato Santo del 387 Agostino si fece battezzare da S. Ambrogio. Morta la madre
tornò in Africa e nel 391 fu ordinato sacerdote ad Ippona (oggi Bona, in
Algeria, non lontano da Tagaste) dove fondò l'ordine religioso che porta
il suo nome. Nel 396 fu eletto vescovo di Ippona.
Nel 410 i Goti di Alarico
erano entrati in Roma e l'avevano messa a sacco: l'evento sembrava concludere e
simboleggiare la decadenza dell'antico e glorioso impero romano, di cui non
pochi attribuivano la responsabilità proprio al Cristianesimo. Molti
abbandonarono l'Italia, troppo esposta alle violenze dei Barbari, e si
rifugiarono in Africa. Tra loro c'era Pelagio, un monaco originario della
Britannia, sostenitore di una sorta di razionalismo cristiano secondo il quale
il peccato di Adamo non si trasmette automaticamente a tutti gli uomini, ma
è solo una sorta di cattivo esempio, la testimonianza della propensione
umana al peccato. Ogni uomo, dunque, è in grado di rifiutare il peccato e
di scegliere da sé, liberamente, il proprio destino. Naturalmente Dio sa
da sempre chi preferirà il bene e chi il male, ma questa sua prescienza
non è predestinazione: l'uomo si guadagna la salvezza o la dannazione con
le sue opere.
Agostino capì che questa troppo ragionevole e
ottimistica dottrina avrebbe stravolto l'esperienza cristiana, non solo
togliendo qualsiasi valore al sacramento del battesimo e impoverendo il
significato della Redenzione, ma soprattutto privando il fedele del sentimento
inquietante e fascinoso insieme della miseria umana e dell'abbandono in Dio. E
poi, quali meriti e quali diritti avrebbe mai potuto rivendicare la creatura nei
confronti del suo creatore? La salvezza non era il premio delle buone opere, ma
un dono assolutamente immeritato e gratuito del Signore; allo stesso modo la
dannazione non era il castigo riservato ai malvagi, ma il destino comune del
genere umano a cui sfuggivano soltanto gli eletti, ossia coloro che Dio, a suo
imperscrutabile arbitrio, aveva destinato alla salvezza.
Ispirandosi a
queste tesi Agostino si impegnò in una violenta polemica contro i seguaci
di Pelagio, fino a quando, nel 418 ottenne dal concilio di Cartagine la condanna
formale delle loro dottrine e la conferma dell'assoluta necessità della
grazia divina ai fini della salvezza.
La questione, per altro, non poteva
dirsi chiusa e la dottrina della grazia sarebbe tornata a dividere i Cristiani
più e più volte.
Intanto le vecchie regioni dell'impero
continuavano ad essere devastate dalle popolazioni barbariche che vi erano
penetrate. Nel 429 i Vandali di Genserico varcarono lo stretto di Gibilterra e
travolsero l'Africa romana.
Ippona fu uno dei pochi centri di resistenza e
quando Agostino morì, nell'agosto del 430, la sua città sosteneva
già da tre mesi l'assedio dei barbari.
IL TEMPO E LA STORIA
L'innesto del Cristianesimo sulla tradizione
della filosofia classica ha portato all'elaborazione di alcune nozioni, il cui
interesse va ben oltre il contesto teologico nel quale erano nate. Ad esempio,
fino all'avvento del Cristianesimo, anche quando i filosofi avevano postulato un
Dio o un Assoluto, il rapporto di questo con la realtà naturale e con
l'uomo era sempre stato concepito in modo piuttosto statico. Platone aveva
parlato di partecipazione delle cose alle idee e a proposito dell'uomo aveva
indicato nell'ascesi lo strumento per il ritorno dell'anima al mondo ideale da
cui proveniva. I culti misterici, poi, e la setta pitagorica, si fondavano
appunto sull'idea della salvezza e della purificazione. Il Cristianesimo,
però, sulla scia dell'ebraismo, intendeva l'intera vita
dell'umanità come una vicenda salvifica, dalla Creazione al Peccato di
Adamo e dal Peccato alla venuta di Gesù; e di qui, ancora, per tutta la
storia a venire, sino al ritorno di Cristo (o Parusia, che in greco significa
«presenza»: è la parola con cui Platone indicava la presenza
delle idee nelle cose) e al Giudizio Finale.
A questa concezione della
storia come cammino dell'uomo a Dio si collegano anche le discussioni dei Padri
della Chiesa intorno alla libertà dell'uomo ed alla sua capacità
di prendere partito nell'eterna lotta tra Bene e Male. Anche S. Agostino fu
molto sensibile al problema della storia, che, alla luce del perenne contrasto
tra Dio e il Diavolo, interpretò come lotta di due regni, la Città
celeste, ossia il regno dello spirito, e la Città terrena, ossia il regno
della carne. Nessuno dei due, secondo Agostino, sarebbe mai riuscito a
prevalere, sicché sino alla fine dei tempi, sarebbero apparsi confusi
insieme, e solo nell'intimo della coscienza di ciascun uomo sarebbe stato
possibile di volta in volta distinguerli.
Al problema della storia era
connesso quello del tempo. Secondo Agostino, prima che Dio creasse il mondo non
c'era altro che l'immobile eternità. Anche il tempo dunque (quella strana
e terribile cosa per cui ciò che è stato non è più,
ciò che è nel momento stesso in cui cerchiamo di afferrarlo
diventa ciò che era, e ciò che dovrà essere non è
ancora) è creato da Dio. Per capire la realtà del tempo, che non
si tocca, non si vede, non si sa come indicare, bisogna scendere nel profondo
della nostra coscienza, analizzare i movimenti della nostra memoria, scoprirci
cioè come io, come soggetto, come attori dei nostri pensieri.
Quello
indicato da Agostino non era lo stesso processo con il quale Platone riteneva
che, ripescando nel fondo dell'anima immagini offuscate dall'opacità
della materia, si potessero riportare alla superficie le Idee innate; era
qualcosa di assai più drammatico, perché, ripiegando sulla propria
coscienza, l'uomo avrebbe finito per trovarvi non i modelli immobili delle cose,
ma la calda, appassionata, inquietante voce di un Dio vivente, un Dio-persona.
Così, la filosofia per Agostino era sempre meno un sistema di
verità, e sempre più un itinerario di ricerca
interiore.
IL CRISTIANESIMO E IL PROBLEMA DEL MALE
L'avverbio «bene» significa
«in modo buono, giusto, corretto» (es. «comportarsi bene»).
È la formula più generale e più comprensiva per esprimere
approvazione, così come il suo contrario, «male», lo è
per esprimere disapprovazione. Come sostantivo «il bene» è
ciò che appare giusto e onesto (es.: aspirare al bene), oppure utile e
conveniente (es.: il bene della patria). In economia si chiama «bene»
tutto ciò che serve a soddisfare un bisogno e che quindi ha un valore
d'uso.
L'approvazione o la disapprovazione connesse alle parole
«bene» e «male» non suscitano difficoltà quando si
riferiscono alla soddisfazione di un bisogno, quando, cioè, il bene di
cui si parla è un mezzo per raggiungere un certo scopo: così, ad
esempio, il pane è un bene (un mezzo) in relazione al bisogno di
nutrirsi, e la ricchezza è un bene (un mezzo) in relazione al desiderio
di vivere senza lavorare, mentre la loro assenza è sicuramente un male
(rispetto agli obiettivi prefissi).
Le difficoltà cominciano quando
l'approvazione o la disapprovazione si riferiscono non ai mezzi, ma ai fini.
Vivere senza lavorare, per esempio, è un bene o un male? Lo stesso bene,
poi, può presentarsi a volte come fine e a volte come mezzo. Nell'esempio
che abbiamo fatto vivere senza lavorare è un fine; può però
diventare un mezzo in relazione a un fine più alto, come dedicarsi alle
opere di bene, conservarsi in buona salute, salvaguardare la propria
libertà, e così via.
Ciò significa che è
possibile costruire una gerarchia di beni, nella quale quel che appare come fine
a un certo livello, può apparire come mezzo a un livello superiore.
È nata di qui l'idea di Sommo Bene, di un bene, cioè, che è
buono non in rapporto ad uno scopo, ma per se stesso, e rispetto al quale tutti
gli altri beni sono semplici strumenti. L'idea di Sommo Bene è legata a
quella di perfezione ed è stata più volte identificata (nelle
correnti platoniche e neoplatoniche, ad esempio) con l'idea stessa di Dio come
radice di tutte le cose e sorgente del loro valore.
«Male» indica
uno stato di corruzione fisica (la malattia) o morale (il peccato), oppure di
sofferenza, che può essere anch'essa fisica (es.: ho il mal di pancia) o
morale (es.: l'ingratitudine mi fa male). Al male l'uomo non si è mai
abituato davvero e i filosofi hanno cercato ripetutamente di definirlo, di
spiegarlo, di renderlo accettabile. Il male è stato considerato da alcuni
(i neoplatonici, ad esempio) come mero non-Essere: se il Bene è l'Essere,
e buona è ogni cosa che esiste, il Male non è sostanza, ma solo
assenza o deficienza di bene. Per altri (gli stoici) il Male esiste, ma come
elemento necessario all'attuazione del Bene: non c'è bene senza male,
così come non c'è luce senza ombra, verità senza menzogna,
felicità senza dolore, ecc.
A queste visioni ottimistiche che negano
il male o lo considerano un momento dell'ordine armonico universale si oppone la
concezione, caratteristica delle religioni persiane e in particolare del
Manicheismo, che ne fa un principio attivo della realtà, esattamente come
il suo contrario: il mondo, allora, è il teatro dell'incessante lotta tra
le potenze o divinità rivali del Bene e del Male (anche Platone aveva
accennato a qualcosa di simile, parlando nelle Leggi di due anime del mondo,
l'una buona e l'altra cattiva). Per gli Epicurei l'esistenza del male era la
prova migliore che gli Dei non esistono, o che, se esistono, si disinteressano
totalmente del mondo: altrimenti si dovrebbe ammettere un'inconcepibile
malignità degli Dei.
Nella tradizione giudaico-cristiana la
giustificazione dell'esistenza del male è risultata tutt'altro che
facile: se tutto ciò che esiste è stato creato da Dio (che
è Sommo Bene), da dove può venire il male? Il dogma del peccato
originale (per il quale l'esistenza del male sarebbe connessa al libero
arbitrio, che Dio, nella sua infinita bontà, ha voluto concedere
all'uomo) risponde solo in parte a questo interrogativo, anche perché
rinvia alle ancor più inestricabili questioni della grazia e della
predestinazione. Così, la filosofia cristiana (e S. Agostino in primo
luogo) ha ripreso l'idea neoplatonica del male come nulla, e quella stoica del
male come condizione del bene. Nella cabala (ossia nella tradizione del
misticismo ebraico) è anche comparsa l'idea che Dio, prima della
creazione, si sia contratto ritirandosi in se stesso, purificandosi e lasciando
cadere fuori di sé le scorie di male.
GRAZIA
«Grazia», come il latino gratia,
viene da un'antica radice indoeuropea che significa pressappoco
«lodare», «cantare inni di lode», «rendere grazie a
Dio», ecc. Grato (come il latino gratus) significa sia
«piacevole», «gradito» (es.: Mi è stato grato
rivederti) sia «riconoscente» (es.: Ti sono grato del tuo ricordo).
Analogamente il latino gratiosus voleva dire al tempo stesso «che prova
riconoscenza», «che fa piacere» e «che è fatto
gratuitamente». Gratis, infine, significa «senza pagare». La
grazia insomma è un piacere, un favore, un servizio senza contropartita,
qualcosa che non è dovuto e non ha prezzo che è
«gratuito» (anche nel senso di «arbitrario»,
«ingiustificato»), ma che, appunto per questo, produce riconoscenza,
gratitudine. Il corrispondente greco del latino gratia è khàris,
da cui, tra l'altro, «eucaristia», che etimologicamente significa
«rendimento di grazia».
Nell'Antico Testamento «grazia»
sta a indicare genericamente la benevolenza di Dio nei confronti di Israele;
l'atto di grazia per eccellenza è l'alleanza da lui stabilita con il
popolo ebraico non perché vi fosse in qualche modo costretto, ma
perché così gli era piaciuto di fare. Nel Nuovo Testamento (e
specialmente nelle lettere di S. Paolo) la grazia del Nostro Signore Gesù
Cristo è il dono che Gesù fa agli uomini della sua
presenza.
La grazia è l'intervento di Dio che salva dal peccato e
che non ha altra motivazione che il suo amore per l'uomo. Il contrario del
peccato non è la virtù, ma la grazia.
LA CRISI DEL MEDIOEVO
I primi secoli del Medioevo, dal V al X
secolo d.C., furono un brutto periodo per la cultura occidentale. In Europa la
vecchia macchina dell'Impero romano aveva smesso di funzionare, l'economia
schiavistica era da tempo in crisi, le città decadevano al rango di
borghi semispopolati, le guerre, il disordine e la fame rendevano ovunque
precaria l'esistenza. È comprensibile che la gente non avesse né
modo né voglia di dedicarsi agli studi. Le vecchie istituzioni culturali
erano decadute, innumerevoli biblioteche erano andate disperse o distrutte e
nessuno (o quasi) si curava di sostituire i libri perduti.
Ad un certo
punto anche le opere di Platone e di Aristotele scomparvero dalla circolazione.
Quel che si sapeva di loro, si sapeva quasi sempre per sentito dire. Il ricordo
della matematica, della fisica o della medicina dell'età classica si
faceva sempre più labile e lacunoso. Non solo era difficile trovare in
Europa scienziati o pensatori di qualche valore, ma persino i più umili
maestri di scuola erano diventati una rarità. Naturalmente la tradizione
culturale non si era completamente interrotta. Qualcosa del glorioso passato
sopravviveva nelle isole di quiete che pur esistevano in questo mondo burrascoso
(nei monasteri per esempio). Qualcosa continuava a filtrare in Europa da fuori,
e cioè dall'Impero bizantino, dove la macchina statale non si era
sfasciata e dava di tanto in tanto segni di rinnovato vigore, e, a partire
dall'XI o XII secolo, dal mondo islamico. Gli Arabi avevano infatti raccolto la
tradizione dell'antica filosofia greca che, dopo la chiusura delle scuole
d'Atene decretata nel 529 dall'imperatore Giustiniano, era faticosamente
sopravvissuta negli ambienti ellenizzati del Medio Oriente: Siria, Mesopotamia e
Persia.
Rispetto a Bisanzio e all'Islam l'Europa continuò ad essere
un'area culturalmente sottosviluppata almeno fino all'XI secolo. Il risveglio
culturale dell'Europa dopo il Mille fu effetto della riorganizzazione della
società su base feudale ed ecclesiastica. I signori feudali costituivano
una casta militare e non erano il genere di persone adatto ad assicurare una
pace duratura e generale. Erano in grado però di dare un minimo di
protezione e di sicurezza ai propri dipendenti, generalmente contadini
asserviti, il cui lavoro all'ombra dei castelli feudali fornì le risorse
necessarie alla ripresa economica dell'Europa. Gli ecclesiastici, o almeno
quelli che occupavano gli alti gradi della Chiesa, avevano pressappoco gli
stessi poteri dei signori feudali, ma il loro compito specifico era di fornire
una guida spirituale alla società. Assolsero questo compito assicurando
con lo sterminio degli eretici e dei dissidenti l'unità religiosa
dell'Europa occidentale e assumendo il monopolio della cultura.
Nel campo
dell'alta cultura la necessità più urgente era rappresentata dal
recupero, per lo meno parziale, della scienza classica. Sino al XV secolo circa
quest'opera di recupero avvenne in modo disordinato e precipitoso. Ad esempio,
poiché quasi nessuno più conosceva il greco, gli antichi autori
greci tornarono molte volte a circolare in traduzioni dall'arabo, con tutti gli
inconvenienti di una doppia traduzione: fraintendimenti, lacune, interpolazioni,
false attribuzioni. Bene o male però, per il tramite degli Arabi (e di
quegli Ebrei che, vivendo in Paesi islamici, avevano accesso alle fonti della
filosofia greca), gli uomini di cultura europei ripresero contatto con la grande
tradizione del pensiero classico.
ARABI ED EBREI
Primi nella volontà di riappropriarsi
del patrimonio intellettuale dell'antichità classica, Arabi ed Ebrei
hanno anticipato gli Europei anche nel cercare soluzioni al problema comune a
tutte le religioni nate dal ceppo del giudaismo: la conciliazione di ragione e
fede. Prima della Scolastica cristiana, che ha posto questo problema al centro
della sua speculazione, c'era stata (per così dire) una
«Scolastica» araba e una «Scolastica» ebraica.
Nel
patrimonio scientifico recuperato dagli studiosi arabi c'erano le grandi opere
di Euclide, di Archimede, di Ippocrate, di Tolomeo, ecc.; ma c'erano soprattutto
le opere di Aristotele, che apparve subito come il pensatore con il quale, prima
e più di ogni altro, bisognava fare i conti. Senonché, tra le
opere attribuite ad Aristotele ce ne erano alcune apocrife (ossia spurie, non
autentiche; dal greco krypto = «nascondo»), scritte molto più
tardi e di ispirazione neoplatonica. Questa errata attribuzione indusse una
certa deformazione nell'immagine corrente di Aristotele, che però, forse,
ne facilitò l'accettazione da parte dei musulmani prima e poi dei
cristiani: il neoplatonismo era sicuramente meno lontano dell'aristotelismo
dallo spirito delle grandi religioni rivelate.
Nel mondo arabo
l'assimilazione dell'aristotelismo può dirsi conclusa con Avicenna
(980-1037), autore di una vasta esposizione (sempre in chiave neoplatonica)
della filosofia di Aristotele. Avicenna è importante anche in medicina
per aver conciliato le dottrine di Ippocrate e di Galeno con le teorie
biologiche di Aristotele: una sintesi che nelle scuole mediche dell'Occidente
è rimasta canonica fino al Rinascimento. Il più importante degli
interpreti arabi di Aristotele è Averroé (1126-1198):
«Averroìs che 'l gran comento feo» dice Dante (Inferno, IV,
44). Averroé non era però un semplice commentatore. Anche lui era
assillato dal problema di conciliare le dottrine di Aristotele con la fede
islamica e le sue idee in proposito dopo aver caratterizzato un intero settore
della cosiddetta «Scolastica musulmana», hanno largamente influenzato
alcune correnti di quella cristiana. In Europa l'averroismo, nonostante la
diffidenza che le sue posizioni suscitavano nella Chiesa in rapporto soprattutto
al problema dell'immortalità dell'anima, era ancora vivo nel Seicento,
all'epoca cioè della Rivoluzione Scientifica. Non vale la pena di
soffermarsi sulle dottrine di Averroé, salvo per quella detta «della
doppia verità», che nelle intenzioni avrebbe dovuto eliminare ogni
possibile conflitto tra religione e filosofia e che invece lo ha alimentato per
secoli.
A dispetto del nome che è stato dato a questa teoria, la
verità per Averroé era una sola: quella del Corano. Il guaio,
secondo Averroé, era che tutti si arrogavano il diritto di interpretare
il Corano a modo loro generando una grande confusione. Non tutti, infatti,
(sempre secondo Averroé) sono in grado di intendere le verità
rivelate. Ci sono tre tipi di persone: gli spiriti dimostrativi che esigono
dimostrazioni rigorose e prove irrefutabili; gli spiriti dialettici che si
accontentano di argomenti probabili; gli spiriti emotivi, che si lasciano
convincere dalle esortazioni e da quegli argomenti retorici che fanno appello
più all'immaginazione e al sentimento che alla ragione. Alla comprensione
dei primi corrisponde la filosofia, a quella dei secondi la teologia, a quella
degli ultimi la religione. Il Corano (e questo, diceva Averroé, era di
per sé una prova del carattere miracoloso dell'opera) si rivolge a tutti
e da tutti si fa capire. Ma, naturalmente, si fa capire in forme diverse: agli
ignoranti è destinato il senso più superficiale delle dottrine
coraniche, espresse per via di immagini e simboli, mentre solo gli altri,
filosofi e teologi, possono accedere al senso più profondo. La
verità è una, ma i suoi significati sono molteplici, e ad evitare
confusioni, occorre che i dotti che hanno colto i significati reconditi non ne
facciano trapelare nulla al di fuori della loro ristretta cerchia.
Nel
mondo ebraico il maggior esponente della corrente favorevole all'assimilazione
della filosofia classica fu Mosé Maimonide (nome latinizzato di Mosheh
ben Maimôn, 1135-1204) che esercitò una forte influenza su Tommaso
d'Aquino. La sua opera più nota, la Guida dei perplessi, allude
già nel titolo alla necessità di combattere lo smarrimento di
quanti tra scienza e fede non sanno che cosa scegliere. La ragione, secondo
Maimonide (proprio come poi affermerà Tommaso d'Aquino), non è in
alternativa alla fede, ma ha esclusivamente il compito di confermare la
plausibilità delle verità di fede. Nella maggioranza dei casi (a
cominciare dall'esistenza di Dio) può dimostrare la verità delle
credenze religiose; negli altri casi può dimostrare l'infondatezza degli
argomenti che vengono opposti a tali credenze.
Come sarebbe poi successo
anche nel mondo cristiano, sia tra gli Arabi sia tra gli Ebrei il tentativo di
trovare un accordo tra filosofia e religione suscitò scetticismo o
ostilità. Il persiano Al Ghazali (1058-1111), che poi diventò uno
dei maggiori esponenti della mistica musulmana, iniziò la sua polemica
antifilosofica (e specialmente antiaristotelica) da posizioni scettiche. La sua
opera Incoerenza dei filosofi (nota nel mondo latino come Destructio
philosophorum) sfruttava le contraddizioni dei filosofi per dimostrare
l'inconsistenza e la vacuità della ricerca filosofica. Ma
l'abilità dialettica con cui conduceva il gioco è una
dimostrazione del suo talento filosofico. Pura esaltazione è invece
l'irrazionalismo del medico e poeta ebreo Giuda Levita (1080-1140) autore di
inni religiosi e di un dialogo (scritto in arabo) Il Re dei Chazari, in cui
rivendicava la superiorità della religione sulla filosofia, del giudaismo
sulle altre religioni, e del popolo ebraico su tutti gli altri popoli. I Chazari
nel VII secolo avevano fondato un vasto impero nella Russia meridionale e
intorno all'800 il loro re e gran parte della nobiltà si erano convertiti
all'ebraismo: il titolo del dialogo allude appunto a questo evento, abbastanza
singolare, visto che l'Ebraismo è una religione a base nazionale, che di
norma non fa proseliti.
Nell'esaltare le tradizioni dell'Ebraismo Giuda
Levita insisteva con particolare fervore sulla necessità di tornare
nell'antica sede degli avi, la Palestina, perché solo lì, secondo
lui, le qualità spirituali del popolo ebraico si sarebbero espresse
compiutamente. Nato e vissuto nella Spagna musulmana, Giuda fu ossessionato
dall'idea dell'esilio: come scrisse in uno dei suoi maggiori poemi, la Sionide,
«il mio cuore è in Oriente, ed io vivo in Occidente». Alla fine
abbandonò il suo paese, e si avventurò in un pericoloso viaggio
per Gerusalemme. Al Cairo i suoi correligionari tentarono inutilmente di
trattenerlo. Partito dall'Egitto, non si è saputo più nulla di
lui.
La leggenda vuole che sia stato ucciso da un cavaliere arabo alle
porte di Gerusalemme (o presso il muro del pianto) mentre cantava il suo inno a
Sion (Sion è la collina di Gerusalemme dove Salomone costruì il
tempio diventato simbolo del popolo di Israele).
AVICENNA E LA "METAFISICA" DI ARISTOTELE
Le doti intellettuali di Avicenna e la sua
sterminata erudizione sono diventate leggendarie. Ad appena sedici anni aveva
intrapreso la professione medica, dopo aver portato a termine studi approfonditi
nei campi più diversi del sapere, dalla letteratura al diritto, alla
teologia.
Come racconta lui stesso, l'unico vero ostacolo in tutto il corso
dei suoi studi era stato rappresentato dalla Metafisica di Aristotele: l'aveva
letta quaranta volte, l'aveva mandata a memoria, ma continuava a non capirci
nulla. Un giorno si imbatté nel commento di un grande interprete arabo di
Aristotele della generazione precedente alla sua, Al Farabi (c. 870 - c. 950), e
con la sua guida riuscì finalmente ad entrare nello spirito dell'opera
aristotelica: improvvisamente ogni cosa gli divenne chiara.
Avicenna fu
così felice che l'indomani in segno di ringraziamento e di esultanza
distribuì abbondanti elemosine ai poveri.
LA SCOLASTICA
La filosofia dell'Europa medievale viene
globalmente denominata «Scolastica» perché all'incirca dal VII
al XIV secolo le scuole, prima quelle annesse alle pievi, alle diocesi, ai
monasteri, poi le università, tutte ugualmente controllate dal clero,
furono in pratica l'unica possibile sede di elaborazione intellettuale e di
ricerca. La cultura filosofica e scientifica di questi secoli aveva
inevitabilmente i tratti della società feudale in cui era cresciuta: da
un lato prestava scarsissima attenzione ai problemi della tecnica e della
produzione (considerati prerogativa non invidiabile delle masse illetterate dei
contadini, degli artigiani e dei mercanti) e dall'altro, in conformità al
monopolio della Chiesa nel mondo della cultura, si presentava essenzialmente
come teologia, ossia come esposizione ordinata e razionale dei dogmi del
Cristianesimo.
Tra i principali problemi con cui la Scolastica ebbe a
misurarsi vi fu quello di convogliare nel pensiero cristiano le tradizioni
filosofiche dell'età classica, e in primo luogo quelle del platonismo e
dell'aristotelismo. Fra tutte, la corrente aristotelica era quella che
presentava maggiore coerenza e organicità, la sola, anzi, che potesse
vantare un compiuto sistema di dottrine, e probabilmente fu proprio questo suo
carattere che le consentì alla fine di prevalere.
In verità
all'inizio (quando cioè, per il tramite dei commentatori arabi, se ne
cominciò a sapere qualcosa) Aristotele fu guardato con diffidenza,
giacché molte sue tesi erano palesemente incompatibili con i dogmi della
Chiesa. Secondo Aristotele, ad esempio, l'idea della creazione e quella della
fine del mondo, che erano assolutamente centrali nel Cristianesimo, erano delle
pure e semplici assurdità. Analoghe difficoltà riguardavano la
nozione di anima, che Aristotele riteneva inseparabile dal corpo e quindi
destinata a morire con esso, e addirittura quella di Dio, a cui Aristotele non
attribuiva affatto quei caratteri antropomorfici che aveva invece nel
Cristianesimo. Per conciliare la filosofia aristotelica con la teologia
cristiana era insomma necessario apportare ad entrambe una serie di importanti
correzioni e di adattamenti.
Fu un'impresa non facile e non priva di rischi
per quanti vi si cimentarono sotto il sospettoso controllo delle autorità
ecclesiastiche, attente a soffocare sul nascere i possibili focolai di eresia:
nel corso del XIII secolo una serie di opere di Aristotele o dei suoi
commentatori furono escluse dalle scuole per ordine delle autorità
ecclesiastiche, sia pure con qualche incoerenza, giacché quel che era
proibito, per esempio, a Parigi era permesso a Tolosa o viceversa. Quando
però l'assimilazione dell'aristotelismo fu portata a termine, per merito
principalmente di Alberto Magno (c. 1205-1280), suo grande divulgatore, e
Tommaso d'Aquino suo interprete e manipolatore, il risultato parve talmente
soddisfacente che per molte generazioni questo miscuglio di aristotelismo e di
Cristianesimo fu considerato, con l'approvazione della Chiesa, il risultato
definitivo e quasi insuperabile della riflessione filosofica.
Ciò
non significa, naturalmente, che a tutti fosse imposto di seguire le dottrine
aristoteliche e che ai filosofi non restasse più nulla da fare. Il
compromesso dottrinale tra aristotelismo e Cristianesimo sancì il
principio di una duplice autorità: quella indiscutibile della Chiesa, e
quella altissima, ma discutibile, di Aristotele.
La filosofia delle scuole
venne insomma a configurarsi come un sistema di pensiero solidamente imperniato
su alcune verità di fede assolutamente incontrovertibili, ma per il resto
tutt'altro che rigido. Rimaneva aperto alla libera ricerca il vasto terreno
delle materie che non coinvolgevano questioni di fede. Qui alcune opinioni erano
considerate più probabili ed altre meno, a seconda che fossero più
o meno largamente condivise dai dottori delle scuole, ma tutte le opinioni erano
legittime. Poiché non era sempre facile separare il campo della filosofia
da quello della teologia, c'erano argomenti intorno ai quali era imprudente,
anche se non espressamente vietato, esprimere opinioni inconsuete (e se ne
sarebbero accorti di lì a poco i copernicani). Nel complesso,
però, la Scolastica non mortificò il confronto delle idee, e
mentre diede un contributo capitale al recupero del pensiero classico,
riuscì a produrre una massa considerevole di ricerche
originali.
RAGIONE E FEDE
Il problema fondamentale della Scolastica
fu, come già per la Patristica, quello della giustificazione razionale
dei dogmi della Chiesa, su cui ormai il pensiero cristiano si affaticava da un
millennio. I modi in cui le successive generazioni di studiosi affrontarono il
rapporto tra ragione e fede consentono di distinguere sia pure grosso modo
diversi periodi nello sviluppo della filosofia scolastica.
Il primo
periodo, la cosiddetta «alta Scolastica», dal IX al XII secolo,
è contraddistinto da una sostanziale fiducia nella possibilità di
conciliare fede e ragione: i dogmi della Chiesa vanno accettati senza
discussione, ma questa stessa accettazione comporta un doveroso sforzo di
comprensione. Come diceva S. Anselmo d'Aosta, vescovo di Canterbury (1033-1109),
uno dei massimi pensatori del periodo, neque enim quaero intelligere ut credam,
sed credo ut intelligam, «non pretendo di capire per credere, ma credo per
poi capire». Alla ragione, insomma, era riservata una funzione
essenzialmente apologetica, di difesa e di propaganda della fede, non di
autentica ricerca. Ed è solo in questi modesti limiti che si può
parlare per questo periodo di un «razionalismo
cristiano».
Diffidenti verso il tentativo di conciliare ragione e fede
restavano in ogni caso le correnti mistiche, che teorizzavano la ricerca
dell'unione spirituale con Dio secondo il consueto modello del «viaggio
dell'anima» tra pratiche ascetiche ed esperienze ineffabili. Una delle
più note polemiche tra mistici e razionalisti cristiani fu quella che
oppose Bernardo (1090-1153), fondatore del monastero di Clairvaux (Chiaravalle),
santo e dottore della Chiesa, a Pietro Abelardo (1079-1142), la figura forse di
maggiore spicco della prima Scolastica. Fautore dell'umiltà intellettuale
e grande maestro di «vita monastica» (un'espressione che al tempo
equivaleva, almeno in teoria, ad ascesi), Bernardo detestava le dispute sottili
e considerava pericolose Le elucubrazioni teologiche. Abelardo, invece,
rivendicava l'esercizio dell'intelligenza e il rispetto della logica anche nella
difesa della fede e nell'illustrazione dei suoi misteri. Ce n'era abbastanza per
scatenare la santa ira di Bernardo di Chiaravalle, che riuscì a far
condannare ripetutamente le tesi di Abelardo.
Nonostante le condanne,
Abelardo è considerato uno dei fondatori della Scolastica e in
particolare del metodo della quaestio (= ricerca) ossia dell'esame di un
problema basato sul confronto di tesi opposte. Uno dei suoi libri più
noti, il Sic et non (alla lettera: «Sì e no» o, più
propriamente, «Pro e contro») è un modello in questo genere: si
trattava di una raccolta di sentenze contraddittorie relative ad oltre 150
questioni teologiche, tratte dalle Sacre Scritture, dai Padri della Chiesa e dai
Concili. Il libro, rivelando che i Padri erano in disaccordo tra loro e con le
Scritture praticamente su qualunque problema, è sembrato un'implicita
contestazione del «principio di autorità». Ma l'intento di
Abelardo era semmai di richiamare a un uso regolato di quel principio: senza il
controllo della ragione, a forza di citazioni è possibile dimostrare
tutto e il contrario di tutto. Come avrebbe detto Alano da Lilla nella
generazione successiva a quella di Abelardo, il principio d'autorità ha
un naso di cera, che può esser girato da qualunque parte: per questo
è nell'interesse della Chiesa dotarlo di una solida armatura, che solo la
ragione può fornirgli.
Il secondo periodo della Scolastica, quello
del suo massimo fiorire, è dominato dalla figura del domenicano Tommaso
d'Aquino (c. 1224-1274) e vede il recupero in chiave cristiana di Aristotele,
sul modello di quanto era stato già fatto nel mondo musulmano e in quello
ebraico. Fondamento di questa operazione è la convinzione
dell'impossibilità che la ragione, dono di Dio entri in contraddizione
con la rivelazione, altro dono di Dio. Contro questa tesi, fatta propria oltre
che da Tommaso d'Aquino dall'intero ordine di San Domenico, fu proposta dallo
scozzese Giovanni Duns Scoto e dall'inglese Guglielmo di Occam, entrambi
francescani, la tesi di una doppia verità: ciò che è vero
per la ragione può non esserlo per la fede e viceversa, e quando una
verità di ragione contrasta con una verità di fede bisogna
accettarle entrambe perché si riferiscono a ordini di realtà
radicalmente diversi, e quindi non interferiscono tra loro. La dottrina della
doppia verità, che, come abbiamo visto, era presente nel pensiero di
Averroé, ma in un senso piuttosto diverso, nel mondo cristiano ebbe varie
formulazioni e si prestò a interpretazioni opposte. Poteva presentarsi
come rivendicazione della priorità della fede contro l'appiattimento
razionalistico dei valori religiosi effettuato da Tommaso d'Aquino; oppure
poteva essere una rivendicazione di autonomia da parte di filosofi e scienziati
nei confronti della Chiesa e dei suoi dogmi; infine poteva addirittura coprire
un atteggiamento di effettiva miscredenza dietro un ossequio solo formale verso
le verità di fede.
Il terzo periodo della Scolastica è quello
del suo lento declino che comincia nel XIV secolo e di cui la tesi della doppia
verità era in qualche modo un preannuncio. La Scolastica aveva esaurito
il suo compito di dare alla Chiesa una filosofia che potesse confrontarsi senza
complessi con la grande tradizione del pensiero classico. Il Tomismo (ossia la
filosofia di Tommaso d'Aquino) e lo Scotismo (ossia la filosofia di Duns Scoto)
rispondevano egregiamente a questa funzione. Non restava che commentare una
dottrina ormai definita, illuminarne i punti oscuri, illustrarne i meriti.
Oppure (ma questo voleva dire uscire dal sistema delle scuole e forse dal
Cristianesimo) sforzarsi di superare il punto morto, abbandonare le certezze
raggiunte con tanta fatica, ricominciare tutto da capo.
POLLI E LIOCORNI
Durante l'alto Medio Evo Dio era davvero
onnipresente. La gente si era abituata a considerare il mondo come un grande
libro scritto da lui in persona affinché l'uomo potesse leggervi i suoi
doveri e il suo destino. Sembra quasi che a un certo punto si fosse persa la
nozione esatta delle cose e che gli accadimenti di questo mondo valessero solo
in quanto segni, prefigurazioni o metafore di una realtà soprannaturale.
Compariva, poniamo, un'aquila o un capriolo? La gente (la gente comune, ma
soprattutto gli uomini di lettere, ossia quei pochi che sapevano leggere e
scrivere) si domandava: che cosa vorrà dire? che cosa
rappresenterà? sarà simbolo di Cristo, o della Vergine, o della
virtù della Prudenza? Era un po' come aggirarsi in una foresta incantata,
dove ogni cosa poteva essere simbolo di un'altra, tutte lo erano di Dio, e il
liocorno era reale tanto quanto il bue perché entrambi avevano il loro
posto nell'enciclopedia mistica della natura.
Le enciclopedie del tempo,
come quella di Sant'Isidoro, vescovo di Siviglia (c. 560-636), che fu il
prototipo di tutte le altre (era intitolato Le etimologie perché seguiva
come filo conduttore le etimologie delle parole), o come quella (nota con il
classico titolo De rerum natura) del venerabile Beda (672-735), che
esercitò un'enorme influenza sulla cultura europea sino a tutta
l'età della Scolastica, raccoglievano i frammenti superstiti della
cultura antica, ma con una peculiare incapacità (dal nostro punto di
vista) di distinguere il vero dal falso. Erano piene di visioni meravigliose: il
coccodrillo, il basilisco, il grifone, il drago, i bramini, i pigmei... Figure
reali e immaginarie, notizie controllate e fantasie poetiche, tutto danzava in
una coreografia straordinaria, allo stesso modo in cui sulle pareti o nei
portali delle chiese angeli, diavoli e mostri di pietra si mescolavano con
assoluta naturalezza a scene della vita quotidiana e a ritratti di personaggi
illustri.
Era un mondo di fiaba? In un certo senso sì. Si trattava
però di una fiaba molto controllata, nella quale l'arbitrio aveva poco
spazio: la comune fede religiosa e la vigilanza delle autorità
ecclesiastiche garantivano che enciclopedie e trattati attribuissero a tutti gli
esseri di questo mondo i dovuti significati secondo le opportune gerarchie. E
soprattutto era un mondo in cui, nel disegno comune predisposto da Dio, niente
avveniva a caso, tutto aveva una spiegazione, uno scopo, una ragion
d'essere.
A un certo punto l'interesse degli Europei (o almeno dei
letterati) tornò a rivolgersi alle cose in quanto tali, e non solo in
quanto segni di altre cose. L'aquila e il liocorno erano animali pieni di
significati simbolici. Il pollo, invece, non ha mai significato niente per
nessuno. Ma un giorno un filosofo, Alberto Magno, morì di polmonite per
essersi fermato nella neve ad osservare il corpo di un pollo stecchito dal
freddo.
Quando le cose cominciarono a valere di nuovo per quel che sono,
Aristotele rientrò in scena e quando la vecchia tendenza a trovare una
spiegazione per qualsiasi cosa si incontrò con un atteggiamento critico,
scientifico, razionale, nacquero le Summae.
Le Summae erano degli apparati
tendenzialmente sterminati di conoscenze, organizzati in modo da comporre
un'immagine unitaria del mondo, comprensiva di tutto: da Dio agli angeli, ai
moti dell'anima, ai polli stecchiti dal freddo. Una Summa medievale è un
capolavoro di ordine, più ordinata e più completa del mondo
stesso, perché nel mondo tante cose vanno male, riescono a metà,
muoiono o si deteriorano, mentre in una Summa non manca nulla e ogni cosa si
trova esattamente e sempre al proprio posto. E non si trattava più della
visione fantastica delle vecchie enciclopedie piene di draghi e di
liocorni.
Gli autori delle Summae erano seriamente interessati a
distinguere il vero dal falso e presumevano di avere un criterio per
farlo.
Esaminavano i problemi da tutti i possibili punti di vista. L'uomo
è libero? C'è chi dice di sì: ed ecco l'elenco degli
argomenti a favore di questa tesi. Ma c'è chi dice di no: ed ecco un
altro elenco di argomenti. E poi analisi e deduzioni che, passo dopo passo,
portavano alla conclusione voluta, nella quale, almeno di solito, si teneva
conto di entrambe le opinioni. San Tommaso era un maestro di questo metodo: non
gli sfuggiva nulla, spaccava il capello in quattro, trovava una ragione per
tutto. Non era un'impresa da poco. Il cristiano era abituato a credere senza
discutere; ora, invece, gli si chiedeva, sì, di credere, ma anche di
riflettere a quel che era tenuto a credere. Non era il trionfo della ragione
(perché l'ultima parola restava comunque alla fede), ma era pur sempre
una rivoluzione.
SUMMAE E SENTENTIAE
Con il termine latino summa =
«somma», nel senso di parte «più elevata» di una
dottrina, di una scienza, ecc.) gli studiosi medievali indicavano un'ampia
esposizione sistematica di un argomento o di una disciplina. Il genere delle
summae derivava direttamente da quello delle Sententiae = «Sentenze»,
che erano compendi o raccolte antologiche di opinioni filosofiche o teologiche
che, data la difficoltà di procurarsi i manoscritti, rari e costosi,
delle opere originali, erano assai comuni nelle scuole medievali. Uno dei
più diffusi testi delle università medievali, che gli studenti
dovevano dimostrare di conoscere per poter accedere ai gradi superiori, erano i
Quattuor libri sententiarum (Quattro libri di sentenze) di Pietro Lombardo (c.
1100-1160 circa), una compilazione delle opinioni teologiche di Padri e Dottori
della Chiesa. Il passaggio dal genere delle Sententiae a quello delle Summae
è segnato nel Xii secolo dal Sic et Non di Abelardo, che presentava
un'organicità e un'ampiezza sconosciuta alle compilazioni
precedenti.
LA PROVA ONTOLOGICA
Tra le verità che Anselmo d'Aosta
immaginava fossero alla portata della ragione umana, c'era anche l'esistenza di
Dio, di cui Anselmo d'Aosta cercò di fornire diverse prove. La più
famosa è quella detta «ontologica» (un nome attribuitogli da
Immanuel Kant, che la confutò nel 1763): Dio - argomentava Anselmo -
è ciò di cui non si può pensare nulla di più grande
e perfetto; affermare che Dio esiste solo nella mente di chi lo pensa è
contraddittorio, perché è sempre possibile pensare qualcosa che
esista tanto nella mente quanto nella realtà e questo qualcosa sarebbe
più perfetto di Dio, che per definizione è l'essere perfettissimo.
Insomma, se ciò di cui si parla è l'essere perfettissimo, deve
esistere; se non esiste, non è l'essere perfettissimo; ma noi pensiamo
Dio come essere perfettissimo, perciò Dio esiste.
Alla prova
ontologica furono subito opposte numerose obiezioni, tutte vertenti
sull'impossibilità di dedurre l'esistenza reale di una cosa dall'immagine
che ce ne formiamo nella mente. Nonostante le difficoltà che incontrava,
l'argomento di Anselmo ha avuto fortuna presso i pensatori in qualche modo
legati alla tradizione platonica e inclini ad attribuire alle idee un primato o
una priorità rispetto alle cose. La confutazione di Kant insiste sulla
considerazione che l'esistenza non è un attributo che si possa ricavare
dall'analisi di un concetto, ma un dato di fatto, ossia di esperienza: che
qualcosa esista non si può dimostrare, si deve mostrare.
Ma è
impossibile che la perfezione si mostri: estranea al mondo dell'esperienza (i
cui oggetti sono sempre limitati nel tempo e nello spazio, e perciò
«imperfetti») essa si sottrae a qualsiasi verifica.
TOMMASO D'AQUINO
Una delle caratteristiche della filosofia
scolastica fu la sua capacità di realizzare abili forme di compromesso,
unificando in una prospettiva cristiana le diverse opinioni espresse dagli
antichi filosofi. Il grande maestro del compromesso dottrinale fu senza dubbio
Tommaso d'Aquino, a cui infatti si deve sia la più completa sintesi tra
il pensiero aristotelico e la tradizione cristiana, sia la più armoniosa
soluzione del problema che aveva tormentato sin dalle origini il pensiero
cristiano, quello dei rapporti tra ragione e fede.
Per Tommaso l'ambito
della filosofia è chiaramente distinto da quello della teologia: mentre
il primo è interamente dominato dalla ragione, il secondo è
costituito dalla sistemazione dogmatica delle verità rivelate. Ma tra
dogmi e verità di ragione non può esserci contraddizione,
poiché entrambi derivano da Dio, e Dio non può averci dato uno
strumento, la ragione, tale da allontanarci dalle verità che lui stesso
ci ha rivelato. Ogni contraddizione, allora, deve essere attribuita all'uso
scorretto di tale strumento. Se usata correttamente, la ragione può
costituire un importante supporto della fede. È vero che i dogmi
fondamentali del Cristianesimo - la Trinità, l'Incarnazione, ecc. - non
possono essere né scoperti, né dimostrati dalla ragione; ma la
ragione ha comunque il compito di chiarirli, di renderli comprensibili mediante
analogie e similitudini, di cercare il modo di difenderli dalle possibili
obiezioni degli avversari.
C'è poi un ambito di riflessione che,
secondo Tommaso, appartiene contemporaneamente alla filosofia e alla teologia:
quello dei cosiddetti preambula fidei (preamboli o presupposti della fede).
Così, ad esempio, non si può credere (per fede) a ciò che
Dio ci ha rivelato se non si sa (secondo ragione) che Dio esiste. Tommaso ha
perciò ripreso le tradizionali prove dell'esistenza di Dio, ad eccezione
però di quella ontologica, che rifiutava perché, se è vero
che l'essenza di Dio include l'esistenza, è anche vero che gli uomini,
esseri finiti, non possono avere un'idea chiara e completa di quell'essenza
infinita. Per provare l'esistenza di Dio Tommaso segue le cosiddette
«cinque vie», che però in sostanza dipendono tutte dagli
assunti aristotelici dell'universo finito e dell'impossibilità che vi sia
effetto senza causa, moto senza motore, ecc.: sappiamo per esperienza che alcune
cose esistono e si muovono, e che tutto ciò che esiste e si muove
è generato e mosso da qualcosa d'altro, per cui esiste una catena
continua di effetti e di cause, di cose mosse (mobili) e di cose che muovono
(motori); questa catena non può essere infinita perché sarebbe in
contraddizione con la natura finita dell'universo; bisogna dunque ammettere
l'esistenza di una prima causa o primo motore, che produce o muove le altre cose
senza essere generato o mosso da nulla; questa prima causa e questo primo motore
è Dio.
Il Dio di Tommaso, comunque, non era il gelido Motore
Immobile già ipotizzato da Aristotele; era il Dio personale della
tradizione ebraico-cristiana, padre e creatore di tutte le cose. In questo
appunto consisteva la più importante modifica operata da Tommaso nel
sistema aristotelico: l'introduzione del concetto di creazione dal nulla,
pressoché sconosciuto alla filosofia classica. Questa innovazione, oltre
a salvaguardare la peculiarità dell'esperienza religiosa
giudaico-cristiana, garantiva la totale diversità tra Dio e natura, ossia
l'assoluta trascendenza di Dio rispetto al mondo, contro ogni loro possibile
identificazione (frequente nella cultura greca e testimoniata anche dall'uso di
designare come «divini» i fenomeni naturali e in particolare quelli
celesti).
L'idea di un Dio creatore era anche usata da Tommaso per
risolvere il vecchio problema del rapporto tra forme (gli universali) e cose
(gli individui) che Platone voleva separate e Aristotele unite. Sul tema una
lunga controversia aveva diviso i filosofi scolastici che, recuperando il
pensiero degli antichi, si erano trovati ad ereditarne i problemi non
risolti.
Le opposte posizioni che si erano venute definendo prima di
Tommaso si possono ricondurre a quella realistica del teologo francese Guglielmo
di Champeaux (c. 1070-1121), e a quella nominalistica del suo conterraneo
Roscellino (c. 1050 - c. 1120). Secondo Guglielmo di Champeaux l'universale,
ossia il genere o la specie, è reale (da cui «realismo») e
costituisce l'essenza comune di tutti gli individui di quel genere o di quella
specie, che si distinguerebbero l'uno dall'altro solo per i loro diversi
attributi accidentali. Secondo Roscellino, invece, ripreso più tardi da
Guglielmo di Occam, solo gli individui esistono realmente e gli universali sono
semplici nomi (da cui «nominalismo») attribuiti convenzionalmente a
una classe di cose, ma che non hanno altra esistenza reale che di parole, suoni,
vibrazioni dell'aria, o, come diceva, flatus vocis («fiati di
voce»).
Tommaso d'Aquino trovò il modo di mediare tra queste
posizioni apparentemente irriducibili affermando che gli universali hanno
diversi livelli di esistenza: sono presenti nella mente di Dio come modelli (in
senso platonico) delle cose che crea e quindi esistono prima delle cose stesse
(ante rem) e indipendentemente da loro; sono poi presenti nelle cose (in re)
come loro forme sostanziali o essenze (in senso aristotelico); infine, sono
presenti nella nostra mente come concetti (ossia nomi di genere o di specie) che
l'intelletto astrae dalle cose (post rem). In questo modo tutti i possibili
punti di vista venivano integrati in un'unica soluzione.
In merito al
rapporto tra Creatore e Creato, Tommaso polemizzò vigorosamente contro le
tesi, presenti specialmente nel pensiero islamico, che tendevano ad attribuire
all'azione diretta di Dio ogni evento o effetto di questo mondo, e quindi a
negare agli esseri creati ogni autonomia di azione. Tommaso ammetteva che tutte
le creature sono prima create e poi mantenute in essere dall'azione di Dio,
senza la quale precipiterebbero nuovamente nel nulla dal quale sono state
tratte. Ma negare alle creature ogni autonoma capacità di operare
equivaleva a immaginare che Dio potesse aver creato degli esseri
inutili.
Con ciò Tommaso formulava una concezione della natura e in
particolare della natura umana, che, integralmente accettata dalla teologia
cattolica, avrebbe più tardi rappresentato un elemento di conflitto con
la teologia protestante, più vicina alle tesi di S. Agostino: la natura
umana, secondo Tommaso, possiede un'integrità di fondo che neppure il
peccato originale ha potuto cancellare e non è pensabile che l'uomo
giunga mai ad un livello di corruzione assoluta, non più riscattabile.
Coerentemente a questa visione ottimistica della natura umana il pensiero
politico di Tommaso, a differenza della netta antitesi posta da Agostino tra
Città terrena e Città celeste, riconosceva che lo Stato, per
quanto doverosamente subordinato alla Chiesa, basandosi sulla naturale
socialità dell'uomo, che è un dono di Dio, ha una sua autonoma
capacità di assolvere i compiti che Dio stesso gli ha
assegnato.
GLI UNIVERSALI
Il termine «universale» è
comunemente usato per indicare:
1) ciò che si riferisce all'universo
(per esempio, la gravitazione universale);
2) ciò che è (o
che si ritiene) comune a tutti gli uomini (la pietà è un
sentimento universale); ciò che si può attribuire a tutti gli
individui (cose o persone) che costituiscono un certo insieme o classe. Una
vecchia canzonetta diceva «son tutte belle le mamme del mondo», se
ciò fosse vero, la bellezza costituirebbe il carattere universale di
quella particolare classe che è rappresentata dalle mamme.
Spesso si
fa confusione tra «universale» e «generale». La proposizione
«le svedesi sono bionde» si può interpretare nel senso proprio
che tutte le svedesi sono bionde, oppure nel senso approssimativo che molte
svedesi (la maggioranza) sono bionde. Nel primo caso il biondo sarebbe un
carattere universale delle svedesi, nel secondo sarebbe soltanto un carattere
generale. La differenza si può esprimere anche dicendo che il generale
implica sempre delle eccezioni, mentre l'universale le esclude assolutamente;
quando si dice che non c'è regola senza eccezioni, si intende che non
esistono regole universali, ma solo regole generali. Nella Scolastica il termine
«Universali» fu adoperato (come sostantivo e per lo più al
plurale) per indicare i nomi di genere e di specie, come ad esempio
«uomo», distinti dai nomi individuali o singolari, come ad esempio
«Socrate». Secondo le definizioni correnti a quel tempo, universale
è «ciò che per sua natura può essere predicato di
più cose»: il termine «uomo» ad esempio, può essere
predicato di più individui venendo a formare più proposizioni:
«Socrate è un uomo», «Platone è un uomo»
«Tommaso è un uomo», e così via. Tra coloro che
trattarono il tema degli universali vi fu Pietro Abelardo
(1079-1142).
ABELARDO
Viveva allora a Parigi una fanciulla di nome
Eloisa, nipote di un certo Fulberto, un canonico, che le voleva un grandissimo
bene e che aveva cercato di farla istruire in ogni disciplina letteraria. In
questo modo Eloisa, non ultima per bellezza, superava tutte per la sua profonda
cultura.
Così scrive Pietro Abelardo nella sua Historia
calamifatum (Storia delle mie disgrazie), ricordando e descrivendo per la prima
volta Eloisa, che al momento del suo incontro con il filosofo ha circa sedici
anni (Abelardo ne ha una quarantina). Eloisa è di ritorno dal monastero
di Argenteuil, dove ha studiato greco, latino e ebraico, una educazione davvero
straordinaria per una donna del XII secolo. Il fascino e la personalità
di Eloisa attirano Abelardo, che per rimanerle il più vicino possibile e
conquistarla, convince Fulberto ad ospitarlo a pagamento nella sua casa: il
tempo libero lo dedicherà a coltivare l'educazione della ragazza. La
passione che presto nasce tra Abelardo e Eloisa procede per parecchi mesi
indisturbata, fino a quando lo zio Fulberto scopre gli amanti e vuole dividerli.
Abelardo, cercando il perdono di Fulberto e una soluzione allo scandalo che
nuoce alla sua reputazione (in quegli anni è al vertice della unanime
considerazione, con le sue lezioni di teologia e di logica
all'università), promette un matrimonio riparatore, tanto più che
Eloisa aspetta un figlio. È proprio Eloisa però che si oppone
fermamente al matrimonio, consapevole che la vocazione del filosofo è
vicina a quella dell'uomo di religione e deve per questo osservare la regola
della continenza. Scriverà ad Abelardo, dal quale è ormai divisa
definitivamente, dopo essersi ritirata nel convento di
Argenteuil:
... Non ti ho chiesto patti nuziali né dote
alcuna; non ho voluto soddisfare la mia volontà e il mio piacere, ma te e
il tuo piacere, lo sai bene. E anche se il nome di sposa può parere
più santo e più decoroso, per me fu sempre più dolce quello
di amica, perfino quello di amante, se non ti offendi, o di sgualdrina. Appunto
perché, quanto più mi umiliavo davanti a te, tanto più
credevo di piacerti, e di recare minor danno alla tua gloria...
Il
matrimonio viene comunque celebrato ma non per questo cessano le persecuzioni di
Fulberto, che non rinuncia a punire Abelardo nel modo più cruento,
facendolo evirare mentre dorme. Anche Abelardo, a questo punto, sceglie il
convento, l'abazia di Saint-Denis, «più per vergogna che per vera
vocazione», come ammetterà egli stesso. Separati nei rispettivi
conventi, l'amore di Abelardo e Eloisa rimarrà affidato ad un celebre
epistolario, nel quale il passato è rivisitato con la necessaria
razionalità e capacità di analisi ma con immutata esaltazione,
soprattutto da parte di Eloisa.
Questa volontà di Eloisa di
contenere le passioni senza rinunciare alla loro intensità,
suscitò l'entusiasmo del filosofo francese Jean-Jacques Rousseau
(1712-1778), che con il romanzo epistolare La Nouvelle Héloïse (La
Nuova Eloisa), pubblicato nel 1761, ripropose la vicenda di una passione
dominata e proprio per questo profonda ed eterna.
I FRANCESCANI
A differenza di quello domenicano, incline
all'aristotelismo riveduto e corretto di Alberto Magno e di S. Tommaso, l'ordine
francescano seguiva tradizionalmente un indirizzo di tipo platonico-agostiniano.
Questa divergenza dottrinale, rafforzata e invelenita da gelosie accademiche
(per esempio tra l'università di Parigi, e quella di Oxford) e da accese
rivalità di potere all'interno della Chiesa, poteva assumere significati
imprevedibili. I francescani erano apparentemente più attenti ai valori e
alle esigenze della fede, mentre i domenicani si mostravano più aperti a
quelli della ragione. Ma proprio perché temevano l'invadenza della
ragione, i francescani erano portati a separare nettamente il suo campo d'azione
da quello della fede, e in questo modo finivano col concedere alla ricerca
filosofica e scientifica (e in particolare allo studio della natura)
un'autonomia assai più ampia di quella concepibile in un sistema chiuso e
totalizzante come il tomismo.
Giovanni Duns Scoto (c. 1265-1308), detto
«il Dottor Sottile», è stato forse, nell'ambito della
Scolastica, il principale avversario del tomismo. Il suo pensiero ha influenzato
profondamente e durevolmente gli orientamenti speculativi del suo ordine, tanto
che nel 1633 un decreto approvato dal Capitolo di Toledo ha imposto a tutti gli
insegnanti di filosofia delle scuole francescane di attenersi alle dottrine
scotiste. Duns Scoto riteneva impossibile dimostrare razionalmente non solo i
misteri cristiani della Trinità e dell'Incarnazione, ma anche le tesi
dell'immortalità dell'anima, o gli attributi di Dio, come l'onnipotenza,
l'onniscienza ecc. La concezione cristiana del mondo è certamente
plausibile, ma questo, secondo Duns Scoto, non sarebbe affatto sufficiente a
convincere della verità del Cristianesimo chi non ne fosse già
convinto per conto suo: una considerazione di non poco conto, visto che la
conversione di infedeli ed eretici costituiva l'attività istituzionale di
entrambi gli ordini, francescano e domenicano.
Prima di Duns Scoto l'ordine
francescano aveva avuto un grande pensatore in Ruggero Bacone (c. 1214 - c.
1292), anche lui acceso di proselitismo cristiano. Ruggero Bacone (nome
italianizzato dell'inglese Roger Bacon), non va confuso con l'altro Bacone,
Francesco, vissuto tra Cinque e Seicento e considerato uno dei fondatori del
moderno metodo sperimentale. La confusione è tanto più facile in
quanto tra i due, a parte l'omonimia, ci sono reali affinità di pensiero:
la stessa espressione «scienza sperimentale» (scientia experimentalis)
è di Ruggero Bacone. L'opera di Ruggero Bacone si colloca in un momento
assai particolare della storia del Medio Evo, quando nella Cristianità
occidentale si erano diffuse attese messianiche e fermenti di rinnovamento
(Renovatio) sociale e spirituale che avevano trovato proprio in alcuni settori
dell'ordine francescano interpreti entusiasti. Per il suo entusiasmo riformatore
Bacone divenne sospetto alle autorità ecclesiastiche, fu oggetto di
persecuzioni ed alla fine dovette subire anche il carcere. Gli scritti
più significativi di Bacone, che risalgono agli anni Sessanta del
Duecento erano tesi a ridefinire la scienza in rapporto al compito di
«governare la Chiesa, dirigere l'intiera comunità dei fedeli e
convertire gli infedeli». L'esaltazione missionaria non sembra davvero una
buona ispiratrice per un'impresa scientifica: in questo caso però
induceva Bacone a sognare una nuova sistemazione del sapere - una sorta di
grande enciclopedia delle scienze - in cui ogni forma di conoscenza potesse
trovare la sua giustificazione e il suo ruolo: un progetto che per molti aspetti
precorre quello formulato agli inizi del Seicento dal suo omonimo, Francesco.
Ruggero Bacone non giunse mai a ricostruire in ogni parte l'immenso edificio del
sapere, né gli interessava davvero farlo: l'importante era stabilire in
summa i criteri generali dell'operazione. Con accenti straordinariamente moderni
Bacone indicava nella matematica e nell'esperienza i due pilastri della
rifondazione del sapere. La matematica era considerata «la chiave di ogni
scienza», l'«anima» di ogni realtà; ma era
all'osservazione empirica che spettava di ritrovare nel mondo dei fenomeni
visibili le invisibili leggi matematiche, come lo studio de fenomeni luminosi,
con le loro meravigliose geometrie, illustrava nella maniera più
convincente.
Duns Scoto ebbe un grande continuatore in Guglielmo di Occam
(o Ockham, la località dell'Inghilterra meridionale dove era nato negli
ultimi anni del XIII secolo). Occam è però anche il filosofo che,
sviluppando sino alle estreme conseguenze alcuni temi della filosofia scotista,
ha finito con il preannunciare sotto più di un aspetto l'imminente
dissoluzione della Scolastica. In tutta la sua produzione filosofica Occam si
servì di un principio che divenne poi noto come «rasoio di
Occam», e che si può enunciare così: «è inutile
fare col più quel che si può fare col meno», oppure:
«non bisogna moltiplicare gli enti senza necessità». In altre
parole bisogna tagliar via (di qui il nome «rasoio») tutte le ipotesi
inutili e attenersi ai dati di esperienza, fornendo dei fatti conosciuti le
spiegazioni più semplici possibile. È sulla base di questo
principio che Occam nella disputa degli universali prese posizione per il
nominalismo. L'ipotesi dell'esistenza reale degli universali non era affatto
necessaria a spiegare i processi conoscitivi. L'universalità dei concetti
di specie si fonda sul fatto che un nome può stare al posto di più
oggetti in virtù di una semplice convenzione. Reali sono dunque solo gli
individui, di cui abbiamo diretta esperienza. Gli universali sono invece dei
nomi, che usiamo per comodità al posto degli enti individuali.
Anche
la netta separazione di filosofia e teologia, derivata da Duns Scoto, può
pensarsi come conseguenza del «rasoio di Occam»: per spiegare il mondo
dell'esperienza dobbiamo attenerci all'esperienza stessa, e se non è
strettamente necessario (e per Occam non era affatto necessario) non dobbiamo
servirci delle verità rivelate. Anzi, per Occam tutto ciò che
è al di là dell'esperienza non è dimostrabile secondo
ragione e può essere soltanto oggetto di fede. Per Occam, così
come per gli altri pensatori francescani, respingere l'alleanza di ragione e
fede tentata da S. Tommaso, voleva dire mettere la fede al riparo dagli attacchi
o dalle lusinghe della ragione. Alla lunga, però, la difesa della
reciproca autonomia di fede e ragione non poteva che giocare a favore di
quest'ultima.
La pericolosità delle tesi di Occam apparve subito
evidente. Nel 1324, mentre insegnava all'università di Oxford, Occam fu
denunciato al papa per aver sostenuto nelle sue opere opinioni sospette.
Fu
così costretto ad abbandonare l'insegnamento e a recarsi ad Avignone,
dove allora risiedeva la corte papale, per affrontare l'esame delle sue dottrine
da parte di una apposita commissione. Nel 1326, anche se non si giunse ad una
formale condanna, una cinquantina di proposizioni sostenute da Occam furono
giudicate censurabili.
BURIDANO
Buridano (nome italianizzato di Jean
Buridan, vissuto tra il 1290 e il 1358 circa) è noto quasi soltanto per
l'apologo, che gli è stato attribuito, dell'asino che, trovandosi
esattamente a metà strada tra due mucchi di fieno perfettamente uguali,
non sa decidere verso quale dirigersi e muore di fame. Ma Buridano, che fu
maestro e rettore dell'Università di Parigi, va ricordato per un paio di
cose assai più importanti: il disinteresse per la teologia (scrisse solo
opere di logica e di fisica) e la formulazione della teoria dell'impetus, il
tentativo più completo, prima della rivoluzione galileiana, di sostituire
la teoria aristotelica del moto, di cui Occam aveva dimostrato
l'artificiosità e l'inconcludenza.
Aristotele, come si
ricorderà, aveva supposto che i corpi possono muoversi solo se spinti da
un motore, il quale opera per contatto diretto. Terminata l'azione del motore il
mobile non può che arrestarsi. Nel caso dei proiettili (una freccia
lanciata da un arco o un sasso lanciato da una fionda) il motore è
rappresentato dall'aria che riceve il moto dallo strumento di lancio (l'arco o
la fionda) e che muovendosi trascina con sé il proiettile. Occam, forte
del suo rasoio, aveva fatto piazza pulita di queste inutili complicazioni e
aveva suggerito un'ipotesi di una semplicità radicale: una volta in moto
un corpo continua a muoversi e il problema non è di spiegare
perché un corpo si muove, ma semmai perché essendo in moto, prima
o poi si ferma. In qualche modo era un'anticipazione della nozione secentesca
dell'inerzia.
Buridano non era affatto così audace come Occam, ma
era convinto tanto quanto Occam che la spiegazione aristotelica fosse
un'assurdità, e che la ragione del moto di un proiettile dovesse essere
ricercata nel proiettile stesso e non nell'aria. Immaginò questa ragione
come una certa forza, l'impetus appunto (che in latino vuol dire
«slancio»), trasmessa dallo strumento di lancio al proiettile (e non
all'aria) e capace di durare finché non le si fosse opposta una qualche
resistenza. Buridano applicò la nozione di impetus anche alle sfere
celesti, che in precedenza si pensavano mosse da intelligenze angeliche: in
sostanza Dio, secondo la tesi di Buridano, al momento della creazione si era
limitato a dare il primo impulso alle sfere, che poi avrebbero continuato a
ruotare per conto loro in forza dell'impetus impresso.
ESOTERICI E MISTICI
Il misticismo suscita sempre qualche
diffidenza nell'autorità ecclesiastica: in qualunque forma di
esasperazione o di entusiasmo religioso c'è un pericolo di sovversione.
È evidente però che nessuna religione potrebbe respingere
l'esperienza mistica senza amputare una parte assolutamente vitale di se stessa.
Il problema, allora, è di tenere sotto controllo il fenomeno senza
eliminarlo. Dove c'è una Chiesa ci sono forme di misticismo, ma mentre
alcune di queste forme sono considerate eretiche e perseguitate, altre sono
tollerate o addirittura esaltate: i mistici, se evitano il rogo, finiscono
spesso sull'altare. È sempre molto difficile dire in linea puramente
teorica in che cosa consista la differenza: le considerazioni in base alle quali
una Chiesa decide di approvare questa o quella esperienza e di condannare le
altre hanno solitamente poco a che fare con la dottrina e molto di più
con la maggiore o minore disposizione all'obbedienza dimostrata dagli
interessati.
Agli occhi della Chiesa di Roma uno dei pregi della filosofia
aristotelica (dopo l'accurato lavoro di ripulitura compiuto dai domenicani
Alberto Magno e Tommaso d'Aquino e dopo l'eliminazione di quanto c'era in essa
di profano e di ateistico) era proprio che non avrebbe dato problemi di questo
genere: il suo razionalismo e il suo spirito di sistema sembravano fatti apposta
per scoraggiare esperienze disordinate, entusiastiche, visionarie. E in effetti
il misticismo cristiano è stato tutto, o quasi, d'ispirazione
neoplatonica (e, da S. Francesco in poi, tutto o quasi di parte
francescana).
Il rischio peculiare del neoplatonismo, con la sua idea del
mondo come emanazione di Dio, era il panteismo, ossia l'assimilazione di
creatura e creatore e lo smarrimento della nozione di trascendenza. Panteista
era stato ad esempio Scoto Eriugena (c. 810 - c. 877 circa), l'unico grande
pensatore cristiano dell'alto medioevo: rifacendosi all'emanazionismo
neoplatonico (che era poi, di fatto, tutto quello che della filosofia antica
restava in quei tempi nella memoria degli Europei) aveva teorizzato l'immanenza
di Dio nella forma di una creazione continua, incessante. Dio, secondo Scoto
Eriugena, era l'essenza di tutte le cose. Le cose dunque erano teofanie, ossia
manifestazioni di Dio (theòs = (Dio» e phàinesthai =
«apparire»), e, a loro volta, tendevano a tornare a Dio e a
confondersi con lui, secondo il classico itinerario mistico.
Dal panteismo
discendeva, tra le altre pericolose dottrine, una considerazione del male (e
quindi del destino dell'uomo) difficilmente conciliabile con il ruolo normativo
della Chiesa. Il male, come aveva sostenuto anche Scoto Eriugena, è mero
non-essere: Dio dunque lo ignora e - conseguenza sconcertante - non può
neppure punirlo. A risultati analoghi portava l'enfatizzazione dell'esperienza
mistica, sulla linea degli gnostici. Come già costoro avevano sostenuto,
nell'unione con Dio ogni uomo è Dio, e rispetto a questa trasfigurazione
tutte le pratiche liturgiche, i sacramenti, le penitenze, la stessa legge morale
non contano più nulla. È quello che in sostanza tornarono ad
affermare, a partire dal XIII secolo, le sette dette «libertine»,
sostenitrici di un panteismo mistico affine a quello di Scoto Eriugena e
fiancheggiatrici estreme (non sempre gradite, in verità) del movimento
francescano.
Secondo Amalrico di Bène, ad esempio, che fu uno degli
ispiratori di queste sette e la cui teoria fu formalmente condannata dalla
Chiesa nel 1210 (qualche anno dopo la sua morte, sicché al rogo finirono
soltanto le sue opere), omnia sunt Deus: tutte le cose sono Dio. Il che vuole
anche dire che Dio è tutte le cose, le buone così come le cattive.
Il peccato, allora, non esiste e non esiste l'inferno. O, meglio: per quelli che
non vivono nella verità l'inferno è già in questo mondo,
mentre per gli altri non può esistere, né ora né mai. A
coloro che sono pieni dello Spirito di Dio, tutto è permesso (lo Spirito
di Dio, aveva detto S. Paolo, è libertà). Le sette libertine non
erano che una frangia trasgressiva di movimenti che la Chiesa seppe tenere
saldamente sotto controllo. Esse tuttavia sono importanti anche perché
testimoniano la sopravvivenza di quell'antico indirizzo di pensiero intriso di
misticismo e fortemente influenzato dalle religioni persiane (mazdeismo,
mitraismo, manicheismo), da cui erano uscite le correnti gnostiche, ermetiche,
neoplatoniche e in cui la stessa Chiesa delle origini aveva affondato le radici.
Il trionfo del Cristianesimo sui suoi concorrenti e un millennio di occhiuto
controllo delle autorità ecclesiastiche su tutto quanto agli Europei
veniva fatto di dire o di credere aveva determinato una quasi totale eclissi di
questa tradizione. Ma il patrimonio di idee, di immagini simboliche, di
sentimenti, di attese escatologiche che le era proprio non si era disperso e
riaffiorava periodicamente dentro e fuori la Chiesa. Fuori della
Cristianità, nei circoli mistici ed esoterici islamici ed ebraici, questo
patrimonio si era arricchito di nuove elaborazioni. Così, ad esempio, la
cabala (o cabbala o, in ebraico, qabbalah = «tradizione») era un
imponente complesso di dottrine costruito, a partire dal III o dal IV secolo
d.C., con l'innesto sul tradizionale misticismo ebraico di elementi desunti
dallo gnosticismo, dall'ermetismo, da un misticismo dei numeri affine al
pitagorismo, dal Cristianesimo e dall'Islam. Alla base c'era la consueta teoria
dei diversi livelli di comprensibilità delle Scritture: sotto il senso
esteriore e puramente legalistico della Legge c'era un significato più
autentico che ne costituiva il corpo vero; ma dentro il corpo si celava l'anima
della Legge, ossia il suo significato mistico, che solo i cabalisti sapevano
cogliere. In fondo a tutto c'era poi l'anima dell'anima della Legge, che nessuno
poteva cogliere perché sarebbe stata svelata solo alla fine dei tempi.
Nella cabala si intrecciavano due indirizzi: quello speculativo che indagava gli
attributi di Dio e i suoi rapporti con il creato, e quello magico che indagava
gli stessi misteri, ma attraverso la decifrazione dei significati occulti delle
lettere e dei numeri. In sostanza, per scoprire il senso mistico delle
Scritture, nascosto da quello letterale, i cabalisti avevano elaborato
complicate tecniche di lettura: per esempio, assumevano le lettere di una parola
come iniziali di altre parole il cui insieme avrebbe dato il significato voluto;
oppure, basandosi sul fatto che le lettere dell'alfabeto ebraico avevano anche
valore di numeri, consideravano equivalenti quelle parole la somma delle cui
lettere (intese come numeri) desse valori uguali; oppure, ancora, scambiando le
lettere secondo certe regole riuscivano a trasformare una parola in un'altra, e
così via.
All'antico ermetismo si rifaceva esplicitamente una vera e
propria scienza, l'alchimia (dall'arabo [san'a] al-kimiya = «[arte] della
pietra filosofale»), elaborata soprattutto nel mondo arabo (c'è
anche un'alchimia indiana e una cinese, ma si tratta di tradizioni
indipendenti). In Europa, dove si chiamò appunto «arte
ermetica», l'alchimia fu riscoperta solo nel basso Medio Evo: la
praticarono, tra gli altri, Alberto Magno e Ruggero Bacone. Gli alchimisti
riprendevano la teoria classica dei quattro elementi, terra, aria, acqua e
fuoco, che però consideravano manifestazioni di un'unica materia prima.
Il serpente che si morde la coda era l'immagine simbolica di questa materia,
unica ma soggetta a continue trasformazioni per opera dei tre agenti, zolfo,
mercurio e sale. Lo zolfo, agente della combustione e principio maschile,
attivo, caldo e stabile, tendeva ad accoppiarsi al mercurio, principio
femminile, passivo, freddo e volatile, che presiedeva alla liquefazione o
fluidificazione dei corpi. Il sale, il residuo, era invece il principio della
cristallizzazione e della solidificazione. L'alchimia era una teoria della
natura ma anche una pratica di dominio sulla natura. Il suo obiettivo era la
promozione e il controllo dei processi di «maturazione» delle cose
verso il loro stato di perfezione, e cioè la liberazione dell'essenza
delle cose dalla prigione dell'esistenza temporale. Nei metalli questa essenza
era rappresentata dall'oro; nell'uomo dalla salute e dall'immortalità.
Gli alchimisti si sforzavano dunque di favorire i relativi processi di
«maturazione», e immaginavano di poterlo fare mediante appositi
preparati, la pietra filosofale per i metalli, la panacea e l'elisir di lunga
vita per gli uomini.
La trasmutazione dei metalli in oro o la preparazione
della panacea erano state perseguite in diversi ambienti prima ancora che si
costituisse una scienza alchemica. L'alchimia aveva ripreso questa ricerca, ma
non vi si esauriva: il suo obiettivo era più alto e il senso delle sue
operazioni più generale. Quello che la pietra filosofale o l'elisir di
lunga vita erano in rapporto ai corpi, era l'estasi (o la gnosi o, comunque la
si chiami, l'esperienza dell'unione con Dio) in rapporto alle anime: l'alchimia
era sopra ogni cosa una dottrina mistica.
La natura degli alchimisti era
viva, animata: la maturazione delle cose verso la perfezione era assimilata a un
processo di gestazione, l'alchimista a un ostetrico, la pietra filosofale a una
sorta di forcipe. L'universo alchemico era un organismo solidale, in cui le
essenze nascoste dei corpi «inanimati» (solo apparentemente
inanimati), come i metalli o come gli astri, coincidevano con l'essenza nascosta
dell'uomo. In questo mondo vivo, animato, un complicato gioco di analogie e di
coincidenze, di simpatie e di antipatie legava le parti e il tutto, il
microcosmo (ossia l'uomo) e il macrocosmo (ossia l'universo). L'uomo era il
mondo in piccolo e il mondo era l'uomo in grande; il mondo conteneva l'uomo, ma
l'uomo poteva contenere il mondo (per esempio rappresentandoselo nella mente). E
qui, ossia nel gioco delle corrispondenze e degli scambi tra microcosmo e
macrocosmo, tutte le scienze occulte, alchimia, astrologia, cabala, misticismo
dei numeri confluivano e mescolavano le loro tradizioni.
Il Sole e la Luna in un manoscritto del XVI secoloLa chimica moderna
è nata dall'alchimia, come negazione del carattere fantastico e magico
delle sue escogitazioni, ma insieme come conferma del largo patrimonio di
esperienze e di cognizioni (in forma soprattutto di procedimenti tecnici e di
strumenti di laboratorio) che aveva saputo accumulare nel corso dei
secoli.
Lo spartiacque tra l'alchimia e la chimica moderna è segnato
dall'opera di Robert Boyle (1627-1691)11 chimico scettico pubblicata nel 1660.
Si tratta di un dialogo tra un sostenitore di Paracelso e un sostenitore di
Aristotele, diretto e mediato da un sostenitore dell'indirizzo sperimentale:
messe a confronto, le dottrine aristoteliche e quelle alchemiche sulla
costituzione dei corpi vengono rifiutate entrambe, in nome non tanto di una
nuova dottrina della materia (ancora tutta da costruire), quanto di un nuovo
metodo di indagine, quello sperimentale, appunto. In rapporto all'importante
patrimonio di pratiche di laboratorio e di tecniche di manipolazione della
materia elaborato dagli alchimisti l'adozione del metodo sperimentale implicava
innanzi tutto l'abbandono di ogni forma di esoterismo, l'adozione di un
linguaggio chiaro in luogo delle tradizionali metafore mistiche, la sostituzione
della vecchia abitudine del segreto con la nuova regola della collaborazione tra
gli studiosi e soprattutto della pubblicità e alla
riproducibilità.
LE UNIVERSITÀ E LO STUDIO DELLA MEDICINA
Nel Medio Evo Universitas non era l'esatto
equivalente del moderno «Università». Il termine oggi indica il
complesso delle facoltà esistenti in una città, dotate di una
stabile organizzazione e, spesso, di una sede comune. Allora stava a indicare
semplicemente l'insieme dei maestri e degli allievi residenti nella
città, fossero o no uniti in corporazioni. Le prime università
medievali a darsi un'organizzazione stabile furono quella di Bologna, centro di
studi giuridici, e quelle di Parigi (detta la Sorbona, da Robert de Sorbon,
fondatore nel XIII secolo di un collegio di teologia) e di Oxford, centri di
studi filosofici e teologici.
Le facoltà principali erano quelle di
teologia e di diritto. La prima esprimeva gli interessi fondamentali della
cultura medievale, mentre la seconda doveva la sua importanza al ruolo di
consiglieri e di fiancheggiatori che i maestri di diritto assumevano nei
confronti dei sovrani, imperatori, re, principi e città. La
facoltà delle arti continuava l'insegnamento delle sette arti liberali
codificato già nell'antichità classica: le tre del gruppo
letterario, denominato trivium, grammatica, retorica e dialettica, e le quattro
del gruppo che potremmo chiamare «scientifico» denominato quadrivium,
aritmetica, geometria, musica e astronomia. Le arti liberali (degne cioè
di uomini liberi) erano state definite così dai Latini in opposizione a
quelle che richiedevano essenzialmente forza fisica e abilità manuale ed
erano considerate servili (degne cioè di schiavi).
Le facoltà
di medicina sono sorte più tardi delle altre ed hanno nel complesso
goduto di un minore prestigio. Le conoscenze mediche dell'Europa medievale erano
frutto del recupero parziale della scienza antica e dell'assimilazione
(anch'essa parziale) della medicina araba e di quella degli Ebrei,
particolarmente versati in questo campo. Anche nella medicina (e forse nella
medicina più che altrove) l'ossequio all'autorità degli antichi
prevaleva sullo spirito di osservazione e sulla pratica sperimentale. Per molto
tempo la medicina era stata esercitata prevalentemente da ecclesiastici e come
opera di carità; nel XII secolo, però, la pratica medica fu
vietata ai monaci. La dichiarazione che «la Chiesa ha orrore del
sangue» costituì un ostacolo non piccolo allo sviluppo della
chirurgia, mentre il divieto della dissezione di cadaveri bloccò lo
studio dell'anatomia. È stato detto a ragione che gli sforzi compiuti in
questo settore durante il Medio Evo, più che a far vivere la medicina
sono serviti a non farla morire. Il più antico e più famoso centro
di cultura medica in Europa era rappresentato dalla scuola di Salerno. Vi
arrivavano studenti da tutta Europa. L'insegnamento si fondava essenzialmente su
opere di Ippocrate e Galeno per lo più in forma di compendi. Sorta tra il
X e l'XI secolo e giunta alla massima fioritura nei due o tre secoli successivi,
la scuola si giovava della presenza nel territorio di Salerno di numerosi
monasteri benedettini, dove quel che restava di antichi trattati medici veniva
tradotto, trascritto e compendiato. Si giovava, poi, degli intensi rapporti
commerciali e culturali che la città conservava con il mondo arabo e
bizantino, mentre come centro di cura era favorita, se non altro, dalla mitezza
e dalla salubrità del clima. Tra XII e XIII secolo venne definito un
regolare corso di studi: l'aspirante medico doveva studiare logica per tre anni,
medicina per cinque e infine fare un anno di pratica presso un medico
esperto.
FLOS MEDICINAE
A merito dei medici salernitani va ascritto
uno spirito di sano empirismo che li teneva lontani tanto dall'astrattezza e
dalla pedanteria degli scolastici, quanto dalle suggestioni pericolose (per i
malati) della magia e della astrologia. Con molto buon senso, e secondo
l'insegnamento ippocratico, i medici salernitani si proponevano di «lasciar
fare alla natura», coadiuvandola con diete opportune, con semplici misure
igieniche e con prudenti terapie. Tra le molte opere mediche uscite dalla scuola
salernitana la più nota è quella intitolata Flos medicinae (=
Fiore di medicina) o (come anche era conosciuta) Regimen sanitatis Salerni (=
Regole salutari salernitane), che è una raccolta di brevi sentenze in
versi, scritte con piglio popolaresco e facili da mandare a memoria, che in
qualche caso sono diventate proverbiali. Nell'insieme si tratta di un manuale
divulgativo d'igiene e di medicina preventiva, che ha avuto una straordinaria
fortuna di pubblico: dopo l'invenzione della stampa ne sono state fatte
centinaia di edizioni in tutte le lingue. Quella che usiamo è una
versione ottocentesca.
[...]
Se dai mali vuoi guardarti,
se
vuoi sano ognor serbarti
ogni ai`ranno da te scaccia,
di frenar l'ira
procaccia;
sii nel ber, nel mangiar parco;
quando al cibo hai chiuso
il varco,
lascia il desco e il corpo avviva;
del meriggio il sonno
schiva;
mai non stringere a fatica
l'intestin né la
vescica.
Tutto ciò se ben mantieni
vivrai di lunghi e
sereni...
La moderazione nel mangiare era una delle regole
fondamentali:
[...]
Un mangiar troppo sontuoso
allo stomaco
è dannoso
Perché il sonno ti sia lieve
la tua cena
sarà breve...
Una notevole importanza era attribuita al giusto
equilibrio tra cibi e bevande:
[...]
Mentre pranzi
allegramente
bevi poco ma sovente;
perché il corpo non si
guasti
mai non bere tra due pasti;
da' col ber principio a
cena
se non vuoi sentirne pena;
dopo aver mangiato un uovo
vuota
sempre un gotto nuovo...
La bevanda cui qui ci si riferisce è,
naturalmente, il vino. L'acqua è sconsigliata:
[...]
tu
dell'acqua per prudenza
mentre mangi fanne senza
che lo stomaco
t'infesta
e indigesto il cibo resta...
Il vino poi era
assolutamente necessario con determinati cibi:
[...]
approvar
non deve il saggio né l'anguilla
né il formaggio
senza
ingiungere di bere
e vuotar più d'un bicchiere...
Nella
dieta bisognava tener conto anche delle stagioni:
[...]
Quando
regna primavera
usa tavola leggera.
Nell'ardor dei giorni
estivi
troppi cibi son nocivi.
Nell'autunno bada che i frutti
non
t'apportin gravi lutti.
Ma nel tempo delle nevi
senza tema mangia e
bevi...
Le libagioni non dovevano passare la misura. In ogni caso si
poteva ricorrere a semplici rimedi:
[...]
se ti par che il vin
bevuto
alla sera ti ha nuociuto,
troverai che medicina
è
riberne alla mattina...
Con una dieta opportuna, elementari misure
igieniche potevano scongiurare brutte malattie:
[...]
Se gli
umor serbar vuoi sani,
lava spesso le tue mani.
Recar suol dopo le
cene,
tal lavacro un doppio bene;
alle man toglie l'untume
e
degli occhi aguzza il lume...
In caso di necessità un buon
salasso poteva recar giovamento:
[...]
Il salasso fatto
appena
gli occhi avviva, rasserena
ed il cerebro e la
mente
scalda i nervi dolcemente,
ventre e stomaco solleva
ed i
visceri disgreva,
slega i sensi, il tedio esilia
ed il sonno
riconcilia,
riproduce anzi recria
voce, udito e
vigoria...
Ma il modo migliore per conservare la salute restava
sempre l'osservanza d'una ragionevole regola di vita:
[...]
Se
non hai medici appresso
farai medici a te stesso
questi tre: anima
lieta,
dolce requie e sobria dieta...